Nell’estenuante saga della Brexit ormai quasi alla fine, ci sono cose di cui si parla poco o niente. Eppure si tratta di temi cruciali per il futuro del Regno Unito e dell’Europa e, oseremmo dire, del sistema economico-finanziario globale. Temi e scenari che forse gettano anche luce sulle contorsioni della Brexit a cui si è assistito nei trentatrè mesi dal referendum. Col dubbio che il no deal verso cui si corre, fosse in realtà il Piano A. Di una parte, almeno.
Al cuore della faccenda c’è infatti la City e il suo ruolo centrale nella gestione dei flussi finanziari globali, leciti e illeciti. Un ruolo che in un dopo Brexit soft potrebbe venir limitato da accordi con le autorità europee, come quello con l’ESMA (Autorità Europea degli Strumenti Finanziari e dei Mercati) sottoscritto poco più di un mese fa. Oppure, nel caso di una Brexit dura, senza accordo, potrebbe invece venir “rilanciato” o piuttosto “spinto” verso una deriva di deregolamentazione totale, trasformando Londra in un centro off hore dalle dimensioni gigantesche, collegamento fra le piazze finanziarie UE e di New York: lo scenario della Singapore sul Tamigi auspicato dai conservatori più radicali sulle due sponde dell’Atlantico – eppure quasi temuto da esponenti della stessa City che paventano ritorsioni UE e fuga di molti business .
LA BATTAGLIA SUI DERIVATI. Uno di questi temi lo ha tirato fuori un recente breve articolo del Financial Times (1) e riguarda <lo stato del gigantesco mercato Londinese dei derivati dopo l’uscita dall’UE> – un argomento di cui < (quasi) nessun politico britannico si preoccupa di discutere>, osserva l’autrice. < Un tema arcano – prosegue – eppure importante non solo perché i derivati hanno implicazioni sulla stabilità finanziaria ma anche perché la questione getta luce su eclatanti battaglie dietro le quinte, ora con conseguenze transatlantiche>.
Dietro le quinte appunto. E che vedono di mezzo gli Usa. Per quanto cauto, il FT non si esime.
<La posta in gioco gira intorno alle compensazioni nelle transazioni di derivati [mediazioni che avvengono in ‘stanze di compensazione’ virtuali chiamate Clearing Houses]. Negli anni recenti la London Clearing House ha dominato il settore degli swaps e dei futures [i derivati più comuni], intermediando regolarmente più di $3 trilioni di transazioni ogni giorno, un quarto dei quali denominati in euro, e quasi la metà in dollari>. Fra questi, la maggior parte dei ‘contratti ‘ (swaps) sui tassi di interesse [con i quale si gestisce il rischio ma si fanno anche lucrose scommesse, quelli sull’Italia e il rischio sovrano sono tra i più trattati].
<I politici europei del continente hanno sempre detestato il fatto che così tanti affari in euro si facessero a Londra. Ma l’hanno sempre tollerato perché il Regno Unito era nell’UE. Mentre i regolatori Americani, anch’essi a disagio per il fatto che un pezzo tanto grande del mercato si svolgeva fuori dal loro territorio, accettavano il dato di fatto perché le autorità britanniche concedevano una sufficiente supervisione su quel business alla Commodities Futures Trading Commission (CFTC), la loro autorità in materia>.
<Ora non più. I politici europei hanno dichiarato che se la London Clearing House vuole intermediare gli euro quando (o se) ci sarà la Brexit, quel business dovrà trasferirsi nell’Europa continentale oppure essere regolato dall’Autorità Europea competente, l’ ESMA basata a Parigi>.
Il FT ricorda come, con sollievo della City – e delle banche – l’ESMA un mese fa abbia dichiarato che lascerà che sia Londra a gestire questi scambi, anche dopo una hard Brexit [senza accordo], finché verranno accettate le regole dell’ESMA. <Il che non è senza peso – nota FT: scindere il business delle compensazioni sarebbe molto costoso per gli attori di quelle partite, come il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney ha puntualizzato, accettando l’accordo con gli Europei>.
Ne ha dato conto Bloomberg a gennaio (2) , compiacendosi sia pure con cautela per <il passo fatto verso la creazione di una rete di sicurezza post-Brexit per il mercato globale dei derivati da $400 trilioni che è stato a lungo a rischio di sconvolgimenti in caso di Brexit senza accordo (…) E’ vero che agli elettori poco importa come multinazionali, banche e assicurazioni gestiscono il rischio finanziario – aggiungeva Bloomberg – ma i regolatori sanno bene che la natura interconnessa della finanza globale può ritorcersi sui cittadini quando le cose si mettono male, vedi Lehman Brothers>.
La visione a lungo termine dell’UE sui modi in cui limitare i rischi per la stabilità finanziaria dopo la Brexit comporta definire regole più stringenti e affidare maggiori poteri all’ESMA. Come ultima ratio costringere le clearing houses a trasferirsi sul territorio europeo. E però una UE così assertiva su quel che accade fuori dal suo territorio rischia di urtare gli Usa, anticipava Bloomberg. Ed è quel che è accaduto.
<C’è un ostacolo da un trilione di dollari che è completamente fuori dal controllo del parlamento britannico: gli Usa>, osserva FT. E racconta che la CFTC americana ha fatto sapere all’Europa che non accetterà che l’ESMA controlli il business londinese degli swaps fintanto che invade i mercati in dollari e le banche Usa>.<Di mezzo c’è l’orgoglio nazionale ma anche una diversità ideologica – spiega. I regolatori britannici e americani tendono a confidare nella forza del mercato e ritengono che nel settore privato i partecipanti debbano essere lasciati liberi di decidere quanto collaterale mettere nelle transazioni per cautelarsi dai rischi di default>.
<Ma che sia soltanto il mercato a decidere quanto collaterale chiedere, specie durante una crisi finanziaria, non piace affatto ai regolatori europei. Memori di quanto accadde nella crisi del 2011 quando la London Clear House (e altri) imposero certe margin calls [avvisi di rischio] sugli asset di Spagna e Italia – ricorda l’articolo del FT, pur difendendo quelle scelte [caute o speculative?]. Quelle vicende – che hanno visto messa in mezzo anche la BCE – bruciano ancora in Europa. Noi italiani ne sappiamo qualcosa, aggiungiamo notando che FT ignora il caso della Grecia.
Il risultato è quello previsto da Bloomberg. Regolatori e politici europei vogliono imporre controlli più stringenti “ Dobbiamo poter avere una gestione legale chiara” ha detto recentemente Benoit Coeuré, membro della BCE. Ma gli americani si oppongono con forza, e minacciano rappresaglie. <In un discorso insolitamente duro il commissario della CFTC Christopher Giancarlo ha fatto sapere che se l’ESMA interferirà troppo con il business in dollari di Londra, gli americani “faranno i passi disponibili per proteggere in mercati Usa e i loro partecipanti. Per esempio, cacciare i partecipanti europei dal Chicago Mercantile Exchange [la piattaforma più grande e importante al mondo nel trading di materie prime e derivati, che opera anche nel mercato Over The Counter -OTC- non regolamentato, che ha dimensioni addirittura maggiori di quello regolamentato].
<Roba allarmante>, commenta FT.
Rinvio al 2021? <La soluzione non è ovvia. Dipende dalla cornice politica per gestire le compensazioni europee che emergerà dalle nuove regole che la UE ha promesso per il 2021. Usa e Bruxelles hanno annunciato che la CFTC parteciperà a questi preparativi. La vera battaglia è probabilmente rinviata – conclude FT aggiungendo le due lezioni da trarre da questa saga: 1. Mostra in quale grado la Brexit non è soltanto un affare fra le due sponde della Manica; 2. Rivela la debolezza politica di Londra che non è in grado di gettare il suo peso nella controversia, che verrà decisa nello scontro ideologico e territoriale fra Washington e Bruxelles>.
UNA SINGAPORE SUL TAMIGI? Le regole europee, di una UE che tenta di svincolarsi da subordinazioni troppo a lungo subite, sono più che mai in ballo nel cosiddetto Singapore on Thames Scenario <volto a trasformare la City in una sorta di Eldorado finanziario basato su scambi commerciali e finanziari deregolamentati e una tassazione soft per le società. Londra diventerebbe [ancor più di quanto non lo sia già, e da un pezzo] un paradiso fiscale al pari delle Cayman, delle Bermuda, delle Virgin, delle Isole del Canale della Manica. Un centro offshore dalle dimensioni gigantesche, collegamento fra le piazze finanziarie dell’Unione Europea e quella di New York. Una “pazza idea” che si fa largo negli ambienti politici ed accademici conservatori della Gran Bretagna>, raccontava a luglio 2018 Angelo Mincuzzi nel suo blog del Sole24Ore (3).
Mincuzzi aggiunge come di questa ipotesi si discutesse nel maggio 2017 in un report del Cityperc (City political economy research center) della City University of London. Mentre a tornare un anno dopo sull’argomento è il fondatore del Tax Justice Network John Christensen in un paper del think tank britannico Ippr (The Progressive Policy). Nonché in un articolo recente su Truepublica.org (4).
In quest’ultimo Christensen non esita a collegare questa strategia estrema alla nuova regolamentazione europea contro evasione, elusione e dumping fiscale che contrastano con il funzionamento del mercato, frutto di una direttiva UE (la 2016/1164) che, messa a punto fra il 2015 e il 2016, è stata presentata dalla Commissione il 28/1, adottata dal Consiglio il 20/6 ed è entrata in vigore dal 1 gennaio 2019. Stranamente se ne parla poco: in attesa degli esiti elettorali?
Le nuove norme mirano ad incidere sui trattamenti fiscali di favore che certi paesi, Olanda Irlanda e Lussemburgo in testa, riservano alle multinazionali e alle banche, consentendo loro di eludere una massa di tasse pari a 160/190 miliardi di euro l’anno,secondo la stima di lavoceinfo.com ripreso dal Sole24Ore. Con pesanti effetti economici e su concorrenza e investimenti nei diversi paesi UE.
<Nel libro Brexit – A Corporate Coup d’Etat, un intero capitolo è dedicato alla minaccia della regolamentazione UE, che sarà rinforzata nel 2019 e distruggerebbe il dominio della GB come leader globale nel business dei paradisi fiscali e del riciclaggio>, esordisce Christensen su Truepublica.<Londra è già un paradiso fiscale… conosciuta a Mosca come Londongrad, ha molto da offrire a oligarchi e riciclatori di denaro. La pura verità è che la città è considerata la capitale del riciclaggio di denaro del mondo> afferma ancora Christensen, citato anche dal blog del Sole24Ore.
Su Truepublica va più a fondo. E racconta l’antica preoccupazione dei governi britannici, dei Tories in particolare e l’atteggiamento in questa materia, che ha fatto da freno in Europa. <Negli anni l’UK ha sempre votato contro la creazione di un corpo inter-governi in grado di definire regole che rafforzino la cooperazione internazionale in materia fiscale. Ed ha resistito con successo alle pressioni internazionali per contrastare i paradisi fiscali, come quelli nelle Dipendenze della Corona (es le isole del Canale) e nei Territori d’Oltremare (Cayman, Bermuda ecc.) che insieme alla City controllano il 23% del mercato globale dei servizi finanziari offshore. <Le giurisdizioni segrete britanniche formano una ragnatela progettata per facilitare un flusso finanziario illecito verso la City, dove ogni anno verrebbero riciclati 90 miliardi di sterline>.
<Le nuove misure UE anti-abuso che entrano in vigore nel 2019 rafforzerebbero le restrizioni sugli intermediari basati in GB (City of London e al) che prendono parte all’off-shore e all’evasione/elusione fiscale di cui la GB è leader globale – nel caso che la GB resti membro dell’UE>, afferma Christensen. E’ una storia vecchia, quella delle preoccupazioni britanniche, intensificata negli ultimi anni. Vale la pena di accennarne perché illuminante anche sull’origine del referendum Brexit.
<Nel 2015 i Tories hanno rigettato i piani annunciati da Bruxelles per combattere “l’evasione fiscale su scala industriale delle maggiori multinazionali”. La GB aveva già creato una sorta di paradiso fiscale per loro abbassando la tassazione dal 28% al 19% per le corporations con consociate finanziarie offshore (con la previsione di scendere al 17%). Col risultato che un certo numero di esse ha già dato vita a quartier generali (virtuali) in UK.(…) . Sempre nel 2015 europarlamentari conservatori, di UKIP e DUP hanno votato contro i piani UE per combattere l’elusione (…) Mentre i Conservatori hanno bloccato la legislazione, Laburisti, Liberaldemocratici, Verdi e altri hanno votato a favore>.
<Cameron si era appellato già nel 2103 al presidente della Commissione UE Van Rompuy per evitare che i trust offshore fossero trascinati in una ampia repressione dell’evasione fiscale. La questione dei paradisi fiscali britannici e degli accordi con multinazionali e industria bancaria era diventata così seria che Cameron si rivolse persino a OCSE e G20 perché si accordassero su una cornice globale in materia di trasparenza>. <Falliti i suoi sforzi, Cameron si accorse che l’UE andava avanti e che l’offshoring e l’evasione fiscale massiccia nei territori di Sua Maestà erano davvero in pericolo. Trilioni vengono riciclati, nascosti e mascherati attraverso la rete di facilitatori tra la City di Londra le Dipendenze della Corona>.
Anche per questo, premuto dall’UKIP il cui fondatore Nigel Farage, secondo Steve Bannon, “ha più influenza con Trump di Theresa May sulla Brexit (6), Cameron ha inopinatamente lanciato il referendum? Christensen non lo dice esplicitamente.
Di Brexit e del futuro dei paradisi fiscali ha invece ha recentemente parlato davanti all’Europarlamento. Tre le tematiche proposte da altrettante slides. UNO. Riguarda il trading nei servizi finanziari e le relazioni reciproche in questo campo con i 27 paesi UE dopo una Brexit effettiva. Si discute di riconoscimento di standard regolatori in base al principio di equivalenza, di standard minimi di trasparenza, di impegni ad accettare controlli regolari, anche per evitare che la GB si impegni in guerre fiscali e competizioni normative. Temi che secondo Christensen acquistano senso in relazione ai due successivi.
DUE. <La strategia della Singapore sul Tamigi è stata indicata da ministri del governo britannico nel 2017, quando la premier May e il Cancelliere Hammond l’hanno fatta diventare la bandiera di una strada potenziale da intraprendere. Da allora altri ministri, compresi il Segretario agli Esteri Jeremy Hunt e quello agli Interni Sajid Javid hanno indicato questo come il modello da seguire nel dopo-Brexit>.TRE. Il contesto: Singapore in dieci anni ha rapidamente esteso il suo ruolo di centro finanziario offshore ed è diventato 5°nel Financial Secrecy Index con un punteggio di 67 che riflette la debolezza del regime di trasparenza corporate e il basso livello di impegno nel contrastare l’evasione fiscale. Tanto per capire a cosa mirano i politici londinesi.
< Il signor Javid- un serio candidato a sostituire Theresa May come leader dei Conservatori, già banchiere a Singapore [nonché direttore di Deutsche Bank, aggiungiamo] -ha parlato di tagli fiscali e deregolamentazione come armi in una strategia di ‘shock and awe’ [colpisci e terrorizza, di ‘Bushana’ memoria, strategia peraltro fallita in Iraq e altrove ].Segue elenco di provvedimenti prevedibili, fra i quali tagli di tasse per corporations e i ‘mobile rich’ [espressione che sembra definire i ricchi transnazionali], misure varie per attrarre investimenti in UK, deregulation per rimuovere le protezioni sociali e ambientali, scarsa o nulla obbedienza alle norme antiriciclaggio, golden visa a garanzia di cittadini di diversa nazionalità da quella britannica, purché ricchi.
Tanto da indurre Christensen a concludere ironizzando sulla contraddizione fra <il mondo dominato da programmi di rigenerazione industriale auspicato dai milioni di cittadini ‘lasciati indietro’ che secondo molti commentatori hanno appoggiato il referendum; e un mondo semplicemente trasformato in un paradiso fiscale per ricchi e potenti>.
Già. Scrive Mercuzzi: <È ampiamente riconosciuto che i paradisi fiscali contribuiscono all’impoverimento di paesi ricchi e poveri, consentendo il riciclaggio di denaro, la cleptocrazia, l’evasione fiscale e l’elusione. L’entità delle perdite derivanti da questi diversi tipi di furti, illegali e legalizzati, è difficile da calcolare; la miglior stima delle perdite di entrate globali dovute esclusivamente allo spostamento degli utili aziendali ammonta a 500 miliardi di dollari all’anno>. Due economisti [citati], stimano lo stock accumulato di capitali fuoriusciti dall’Africa subsahariana pari a $944 miliardi circa cinque volte più del debito estero di quella regione. Secondo altri studi le ricchezze personali conservate nei centri offshore sarebbero pari a $21 trilioni>. Cifre pazzesche che palesano l’ipocrisia di tante dichiarazioni e programmi di aiuti all’Africa.
CITY & C ,PERPLESSI. Eppure non è certo per il bene dei cittadini del mondo che esponenti dell’industria dei servizi finanziari, banche d’affari e la stessa City si mostrino più perplesse e caute della politica davanti a uno scenario di deregolamentazione spinta in chiave nazionale Singapore style caldeggiato da alcuni politici. Temono di perdere fette di business e di rendere più complesse e costose le operazioni per i clienti. La City nel 2016 avrebbe addirittura votato per il Remain.
Una divergenza emersa già in un importante meeting nel settembre 2017, dopo le elezioni che hanno visto sconfitta Theresa May e i Tories costretti ad allearsi col DUP nordirlandese dopo aver perso la maggioranza. Presenti all’incontro la premier May, il cancelliere Hammond, il segretario alla Brexit Davis col suo consigliere Lord Hill, quello agli Esteri Hunt e quello agli Interni Javid; insieme al presidente di Royal Bank of Scotland, al capo di Morgan Stanley Europe, al direttore della Borsa Londinese e al ministro della City. <Al meeting i ministri hanno dato l’impressione di essersi impegnati a garantire un periodo di transizione di due o tre anni in cui continuino a valere le regole attuali. “Avete bisogno dello status quo” ha detto un banchiere>.
Così il solito ben informato FT (7). Che notava come <Dal referendum nella City molti ritengono che mantenere una qualche forma di equivalenza con Bruxelles sarebbe un modo per fare restare a Londra una serie di servizi finanziari che altrimenti migrerebbero nel continente>.<Il Regno Unito deve restare allineato a regole globali, ma sarebbe sbagliato se si legasse irrevocabilmente a una cornice legislativa europea sulla quale non avesse alcun controllo>, ha insistito Lord Hill.
Ma le banche d’affari non sembrano convinte. <Le banche sono coscienti delle conseguenze globali e non vogliono vedere l’UK in una corsa ad abbandonare gli standard dell’equivalenza regolamentale. Per banche di investimento e assicurazioni mantenere un livello minimo di base è cruciale perché assicura un mutuo accesso ai mercati e rende più facile la gestione che con regimi diversi>.
<Prima delle elezioni del 2017 May e Hammond assicuravano che se non si fosse ottenuto un buon accordo con l’UE, il Regno Unito avrebbe avuto un’altra opzione: fare marcia indietro e competere con l’UE con una regolamentazione minima e basse tasse Singapore Style. Ma dopo le elezioni May ha abbandonato questa strada. Mentre Hammond ha continuato a ribadire che l’UK in futuro non è costretta a soggiacere a norme che non controlla>. E’ un caso che il meeting in questione fosse ospitato nella magione di campagna di Boris Johnson, il Tory ultra-falco leader dei conservatori più estremi, che Bannon ha detto di considerare ‘un modello’, un primo ministro ideale quanto il nostro Salvini?
PRESSIONI TRANSATLANTICHE. No, non è stato un caso. Nella lunga saga della Brexit in gioco non ci sono solo GB e UE, ma un “fronte transatlantico, come lo definisce eufemisticamente FT, che va ben oltre il tema dei derivati. “Economic Regime Change – US Groups Continue Raise Millions For Hard Brexit”, titola un articolo di Robert Woodward, di febbraio ma postato da Truepublica soltanto in questi ultimissimi giorni (8). In parallelo con un altro post dal titolo ugualmente significativo (9): Was a hard Brexit always a plan A? che fra l’altro parla della segretezza intorno alle misure e ai piani accurati che il governo sta predisponendo per una Brexit senza accordo.
Dagli Stati Uniti arriverebbero insomma, e non da oggi, forti pressioni, e finanziamenti, per una Brexit “dura” senza accordi con l’Unione Europea. Quel no deal Brexit che sarebbe stato fin dall’inizio il Piano A delle correnti economiche e politiche che hanno sostenuto Trump e da anni spingono per una vasta deregulation a tutti livelli nel Regno Unito ( e non solo) – compresa la sanità e le norme a difesa di ambiente e consumatori – e oggi non si rassegnano a veder sfumare i loro piani.
Il famoso giornalista del caso Watergate parte dal recente Collins Report, del deputato Tory Damen Collins, che attribuisce alla Russia interferenze nella politica britannica e nel referendum. <In realtà – scrive – dietro quelle intromissioni c’erano miliardari e organismi Americani. Questo oggi è un fatto come è un fatto che media mainstream e politici lo abbiano taciuto>. Da un’inchiesta del Guardian Woodward cita con dovizia i numerosi think tank di destra, fondazioni, front charities e organismi di fund raising dei due lati dell’Atlantico, tra i più forti sostenitori di accordi di libero scambio e regolamentazioni ridotte – che beneficiano i business Americani – e si oppongono a norme europee più strette fin dal 2008. Con nomi e cognomi.
Centinaia di milioni spesi in quella che dovrebbe essere definita <una campagna per un regime change economico – conclude Woodward con una espressione efficace – da parte di una potenza straniera. Una potenza che si chiama America>. Alla fine ricorda una pièce satirica della CNN che invitava a chiamare il referendum Brexit per quello che è: “Un’opportunità per diventare il 51° Stato Americano. La perdita dell’UE è il nostro guadagno. Chiamiamolo Brentrance>, gioco di parole fra Britain e entrance.
1) https://www.ft.com/content/ab751f8a-499c-11e9-bbc9-6917dce3dc62 2) https://www.bloomberg.com/opinion/articles/2019-02-06/brexit-an-uneasy-truce-in-400-trillion-derivatives-fight
5) https://ec.europa.eu/taxation_customs/business/company-tax/anti-tax-avoidance-package/anti-tax-avoidance-directive_en e https://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2019-01-18/quanto-ci-costa-l-elusione-fiscale-multinazionali-155259.shtml?uuid=AED7k0HH (spiegazione)
6) https://www.theneweuropean.co.uk/top-stories/steve-bannon-on-donald-trump-nigel-farage-theresa-may-and-boris-johnson-1-5943606 7) https://www.ft.com/content/582ca822-9e06-11e7-8cd4-932067fbf946 8) https://truepublica.org.uk/united-kingdom/economic-regime-change-us-groups-continue-raise-millions-for-hard-brexit/
9) https://truepublica.org.uk/united-kingdom/was-a-hard-brexit-always-plan-a/