Il Nord Stream sabotato e dimenticato, escalation della Guerra Ibrida. Contro Germania e UE, silenti.

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Del sabotaggio dei gasdotti NS1 e NS2 si è parlato come un mero fatto di cronaca, dopo di che il tema è scomparso dai radar mainstream. Eppure è stato molto di più: un episodio di Guerra Ibrida Industrial Commerciale, condotto nella forma di un attacco terroristico a infrastrutture energetiche in acque internazionali, e segnala il collasso della regole internazionali (P. Escobar qui). Un attacco che potrebbe in futuro ripetersi, ai danni dell’Occidente, segnalava preoccupato il Financial Times.

Attacco da parte di chi? Ai danni di chi? Con quali obiettivi strategici? Proviamo ad esaminare la faccenda, le cui implicazioni economiche e politiche non sono da poco, secondo varie analisi non mainstream. E vanno ben oltre il conflitto ucraino, di cui la guerra del gas è l’antefatto (A.Negri qui); un attacco contro la Russia e Germania, e non solo, per cambiare d’autorità l’approvvigionamento energetico dell’Europa (T. Meyssan qui e qui in italiano); una guerra alla UE nei suoi rapporti con la Russia, vero obiettivo strategico di Washington al di là della stessa guerra in Ucraina (M. Whitney qui, e M.Hudson citato).

CHI E’STATO. La Russia ha infine accusato la Gran Bretagna. <I nostri servizi di intelligence hanno dati che indicano che specialisti militari britannici hanno coordinato questo attacco terroristico, ha detto Peskov, il portavoce di Putin. Qualche giorno prima il ministro della Difesa russo Shoibu aveva puntato il dito sul personale della marina militare britannica. A suo avviso la GB – peraltro punta avanzata dell’Occidente in Ucraina, come è ormai noto – sarebbe coinvolta anche nei recenti attacchi alle navi russe a Sebastopoli (non citato il ponte di Kerch). Entrambi non hanno addotto prove. E il primo ministro brit Sunak ha ovviamente bollato le accuse come false.

E’appurato ormai che le esplosioni ai danni dei NS1 e NS2: siano avvenute in acque internazionali nelle acque poco profonde lungo le coste di Svezia e Danimarca, al limite della zona economica esclusiva danese e vicino all’isoletta danese diBornholm; siano state un atto di sabotaggio (subito detto dalla Germania, confermato dalla premier danese Andersson); abbiano fatto uso di cariche multiple da varie centinaia di tonnellate di esplosivo in diversi nodi dei gasdotti. Secondo al Jazeera si sarebbero verificate in date differenti: al nodo del NS2 il 26 settembre, ai tre nodi vicinissimi del NS1 il 27 e il 29 settembre (vedi cartina). Azioni che non avrebbero potuto essere condotte da droni sottomarini (campo in cui la Nato è molto attiva) e probabilmente nemmeno da sommergibili, data la scarsa profondità. Più probabilmente da navi, che la Danimarca non avrebbe potuto ignorare. Notare che il mercoledì successivo all’attacco il ministro della Difesa danese ha incontrato urgentemente il segretario generale della Nato.

<Grazie USA>aveva subito twittato soddisfatto l’ex ministro della Difesa Polacco Radek Sikorski, un russofobo spostato con la giornalista e saggista americana Anne Applebaum. E verso gli US si erano appuntati i sospetti dei “filorussi” sui social, memori delle minacciose pubbliche parole di Biden davanti a Scholz: <Se la Russia dovesse invadere, il NS2 lo chiuderemo noi>. Una minaccia cruciale nel suo timing, lo vedremo meglio in seguito.

Come dire che la politica energetica della Germania non veniva più decisa a Berlino ma a Washington, osservavano sia Negri che Whitney.

Al Consiglio di Sicurezza ONU l’inviato Vassily Nebenzia, dopo aver sottolineato che un’azione così complessa e su vasta scala non avrebbe potuto svolgersi senza in coinvolgimento di uno Stato, aveva poi chiesto al rappresentante americano <se avesse potuto confermare “qui e ora” che il suo paese non era coinvolto in questo atto di sabotaggio>. Richiesta elusa dal vice ambasciatore americano all’ONU Richard Mills che si era limitato ad assicurare l’appoggio US agli sforzi investigativi degli Europei.

Era stato lo stesso Consiglio di Sicurezza a chiedere un’inchiesta indipendente. Ma Mosca ne era stata esclusa, e lo è ancora. Peskov aveva espresso <rammarico per il fatto che l’intero processo investigativo si svolgesse a porte chiuse, senza permesso di partecipazione e senza interazione con Mosca che è comproprietaria>. Da allora non si è saputo più nulla, a parte le accuse russe alla GB.

E quelle alla Russia, larvate, nella narrazione mediatica ma circolanti a vari livelli. <Risibili > secondo Pepe Escobar. Smontate da Kostantin Simonov, direttore del Fondo Nazionale Russo per la sicurezza energetica, intervistato dal Sole24Ore (6 ottobre). Alzare il prezzo del gas? Mosca avrebbe potuto più semplicemente chiudere il rubinetto. Lanciare un avvertimento per altre infrastrutture cruciali? Non avrebbe certo scelto di colpire un proprio impianto, giocandosi il controllo del rubinetto stesso. Recuperare le coperture assicurative da parte di Gazprom? I legami sono così compromessi che sarebbe difficile per Gazprom farsi ascoltare.

Fatto sta che la reazione immediata della Commissione UE è stata la richiesta di ulteriori sanzioni. Alla Russia.

I DANNI ECONOMICI. Non è certo se e quando i gasdotti si potranno riparare. Sicuri sono invece i danni economici ai giganti dell’energia. Non solo al russo Gazprom. L’elenco comprende le tedesche Wintershall Dea Ag e PEG/E.On; l’olandese N.V.Nederlandse Gasunie; e la francese ENGIE. Poi vengono i finanziatori del NS2: Di nuovo Wintershall e Uniper; l’austriaca PMV; ancora ENGIE, e l’anglo-olandese Shell. Wintershall Dea e ENGIE sono sia comproprietari che creditori. E dovranno rendere conto ai loro azionisti. (Escobar). Nessuno ne parla.

Come se non bastasse, la Germania è contrattualmente obbligata ad acquistare almeno 40miliardi di metri cubi di gas russo fino al 2030. E se rifiutasse? Gazprom è legalmente titolata ad essere pagata anche senza inviare gas. Questo è lo spirito del contratto, ed è quel che sta già avvenendo causa sanzioni. Berlino non riceve tutto il gas ma deve comunque pagare. Ma i costi economici e politici per la Germania, e l’intera UE, sono ben più vasti.  

Quest’inverno sarà senza gas russo, o quasi. L’unico passaggio rimasto in piedi, attraverso l’Ucraina, potrebbe saltare in ogni momento. Mentre Gazprom minaccia di far causa alla compagnia ucraina Naftogas per conti non pagati. A quel punto resterebbe solo il Turkish Stream, o TurkStream (che peraltro ha subito un tentativo di sabotaggio da parte di Kiev (Escobar). E la cui manutenzione è stata bloccata negli stessi giorni del sabotaggio ai NS (Meyssan). Il TurkStream, che trasporterebbe gas dalla Russia ma pure dall’Azerbajan e magari anche dall’Iran, con terminali fino in Egitto e Grecia, in realtà è stato costruito solo in parte, e completarlo comporta vari problemi, non ultime le garanzie di ferro sulla sua sicurezza e le probabili interferenze US-GB, con le loro multinazionali del gas, sulla Turchia, che diventerebbe un hub decisivo, secondo il progetto caro a Erdogan e allo stesso Putin. Che lo rilancia, vedi Sole24.Ore

<Putin è apparso rassegnato alla perdita del Nord Stream ma non ha rinunciato al mercato europeo e ha lanciato l’idea di un hub centrato sulla Turchia e rivolto all’Europa, conferma Simonov. Poco ottimista sul futuro europeo senza il gas russo. <L’anno scorso la Russia ha fornito all’Europa 150 miliardi di metri cubi di gas via gasdotti. L’Europa li troverà altrove sul mercato?>. Simonov ne dubita: <Non ce ne sono abbastanza, fisicamente>. Negri è dello stesso parere: <L’Algeria di gas da venderci ne ha poco, oltre a quello che scorre nel Transmed, meno ancora la Libia destabilizzata>.

Per il momento, conclude Simonov <chi esce avvantaggiato dal caso Nord Stream sono gli Stati Uniti, col loro messaggio alla UE: “Non vi conviene neppure pensare di ricreare un legame energetico con la Russia”>. Le conseguenze di tutto ciò, sanzioni comprese, saranno serie per la Russia, e aumenteranno, sostiene. <Ma lo stesso sarà per l’Europa. Chi vince, in questa situazione? Tutti gli altri giocatori. Di certo gli Usa che da 50 anni cercano di cacciarci dal mercato europeo, per prendere il nostro posto>.

ATTACCO A CHI. OBIETTIVI E STRATEGIA.  Quello diretto alla UE è molto più di un mero messaggio. Il cordone ombelicale che legava la Russia all’Europa sul gas, ormai spezzato, è un relitto. Sia a Est che a Ovest sanno che niente sarà più come prima.  Su questo tutti gli analisti non msm concordano. Ma un po’ diverse sono le valutazioni.

Sotto l’acqua ribollente di metano nel Baltico c’è uno dei motivi dell’escalation della guerra mossa da Putin all’Ucraina, ora al punto di non ritorno, scriveva Negri a caldo. A suo dire il caso NS2 è emblematico di come da tempo confliggevano gli interessi americani ed europei. <Non si trattava soltanto di una questione economica ma strategica. Voluto fortemente dalla ex Cancelliera Angela Merkel, il Nord Stream era la vera leva politica ed economica che tratteneva Putin da azioni dissennate, come la guerra in Ucraina (era ancora in sospeso l’accordo di Minsk II- [peraltro osteggiato dagli ipernazionalisti ucraini su ordine Usa]). Molti non lo avevano capito perché attribuivano al gas russo una valenza soltanto economica: aveva invece un enorme valore politico per tenere Mosca agganciata all’Europa>.

Michael Whitney, che scriveva prima del 24febbraio, è più drastico. La crisi in Ucraina a suo dire non riguarda tanto l’Ucraina quanto la Germania, in particolare il NS2 che Washintgon vedeva da tempo come una minaccia alla sua supremazia in Europa. Era quello il vero obiettivo strategico. L’Ucraina era uno strumento, un cuneo da insinuare fra Germania e Russia. Il loro rapporto rappresenta da sempre una minaccia per gli US, che l’ha combattuto in due guerre mondiali e nella guerra fredda, scrive Whitney citando George Friedman, Stratfor CEO del Chicago Council of Global Affairs.

Washington non voleva che la Germania [la terza economia globale, la locomotiva europea] si avvicinasse ancora di più alla Russia, accrescendo scambi commerciali, partnership, viaggi, turisti ecc, in prospettiva rendendo non più indispensabile lo stesso dollaro nonché gli acquisti di buoni del Tesoro US. Relazioni sempre più strette fra Germania [e UE] e Russia avrebbero finito per condurre alla fine di quell’ordine unipolare creato dagli US per 75 anni.

Insomma: per Negri il NS2 era uno dei motivi dell’escalation di Putin vs l’Ucraina. Per Withney – e l’economista Michael Hudson con lui – tutta la strategia di Washington verso l’Ucraina, in atto da anni, era finalizzata a spezzare i legami fra Germania e Russia. Fino a che l<l’unica strada rimasta alla diplomazia US è stata spingere Putin a una risposta militare (Hudson). Di qui ogni sorta di provocazione per indurre Mosca a intervenire in difesa dei russi del Donbass .

I NORD STREAM. Il primo progetto Nord Stream nasce già nel 1997, quando la situazione geopolitica di quel periodo consentiva di prevedere che il gasdotto non attraversasse né i Paesi Baltici né Polonia, Bielorussia e Ucraina. Nazioni escluse da eventuali diritti di transito e che non avrebbero potuto intervenire sul percorso per sospendere la fornitura di gas all’Europa e mettere la Russia sotto pressione negoziale. Completato nel maggio 2011, il NS1 entrava in funzione a settembre, poi nel 2012 con una seconda linea. Poco dopo nasce il progetto di un ulteriore potenziamento, il NS2 – completato nel 2021 – che raddoppiava il tracciato. Una volta in funzione, il NS2 avrebbe consentito a Mosca di trasportare verso la Germania ulteriori 55 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno [e a prezzi contenuti, concordati con la Russia].

Un valore economico e strategico enorme per la UE, in primis per la Germania. Ma anche per Mosca, sottolinea Negri. Che prosegue: uscita di scena Angela Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero. La guardiana di Putin e del gas non c’era più e gli americani hanno capito che il presidente russo era diventato più pericoloso ma anche più vulnerabile. Per due mesi gli Usa hanno avvertito dell’invasione dell’Ucraina perché sapevano che contestando il NS2, come hanno fatto, si apriva una falla.

Quando Mosca ha capito che con Scholz il NS2 non sarebbe stato al sicuro ha cominciato le minacce all’Ucraina, che in precedenza russi e tedeschi avevano pagato perché non protestasse troppo per la realizzazione del gasdotto, assai temuto dalla Polonia. Gli americani avevano già messo alle corde Merkel, obbligandola ad acquistare quantitativi di gas liquido americano di cui Berlino, allora, non aveva alcun bisogno.

Così Negri. Per Whitney invece Biden ha cercato in tutti i modi di provocare Putin per indurlo a intervenire in Ucraina. Con una campagna mediatica massiccia e isterica che dipingeva il cattivissimo Zar che minacciava l’intera Europa. Mentre pressioni e minacce montavano negli US.

BIG OIL&GAS ALL’ATTACCO. Si inserisce qui un altro capitolo, sugli interessi corposi delle corporations che controllano il gas americano e sulle pressioni subite da Biden, le quali hanno avuto un peso significativo nell’avvio del conflitto (ancora incerto quando usciva questo articolo). Società come Chevron ExxonMobil, e Shell, con centinaia di contractors legati all’estrazione e al trasporto, da un pezzo miravano ad espandere massicciamente il loro export verso l’Europa. Ma di mezzo c’era la Russia con la sua Gazprom, che forniva all’UE il 30% di tutte le importazioni di gas naturale, il 40% a Germania e Francia [e Italia] mentre Cecoslovacchia e Romania utilizzavano solo gas russo.

Le pressioni si erano intensificate per tutto il 2021, i prezzi di mercato del gas erano balzati in alto per molteplici fattori, in Europa erano quintuplicati, e i produttori Usa volevano approfittarne. Gli Usa dal 2005 sono i maggiori produttori di gas shale estratto da sottoterra col fraking, dichiarato non nocivo all’ambiente da Bush jr, e la cui estrazione è stata incoraggiata da Obama, contro i movimenti ecologisti e i progressisti Dem. Grazie all’accordo fra amministrazione Trump e UE le vendite di LNG americano in Europa erano già salite dal 16% nel 2019 al 28% nel 2021.

Il problema restava il prezzo: lo shale gas è molto costoso, l’estrazione è complessa, per trasportarlo va liquefatto(LNG), il trasporto a sua volta costa molto, in più è più sporco e produce molta più CO2 (ma non lo si dice). Svantaggi non da poco rispetto al gas russo che viaggia nei gasdotti.

La minaccia per i produttori Usa era rappresentata soprattutto dal NS2, che avrebbe dovuto diventare operativo a fine 2021, bypassando l’Ucraina. <Quanto convenienti erano dunque le tensioni fra gli US e il suo alleato Ucraino da un lato, e la Russia dall’altro, nell’imminenza della sua operatività. Il governo di destra Ucraino ha premuto su Washinghton tutta l’estate 2021per imporre sanzioni sul NS2 e le società tedesche e russe dietro>. E qui si apre una pagina poco raccontata sui preludi e l’innesco della guerra. Che guarda a caso coincide con l’articolo di Withney.

2021. LO STALLO E LE PROVOCAZIONI. Il Congresso e il Senato Usa si consegnano ai governanti ucraini, facendo scivolare le sanzioni desiderate nel provvedimento di spesa per la Difesa. Biden rifiuta, conoscendo l’opposizione degli alleati, e dell’opinione pubblica tedesca a qualunque minaccia alle loro forniture energetiche. Sa che <più gli US minacciano sanzioni o criticano il NS2, più questo diventa popolare> come spiega Stefan Meister, esperto di Russia e Est Europa nel Council of Foreign Relations. Ma i legislatori Rep e Dem al Congresso non demordono e presentano le sanzioni come una <deterrenza nei confronti di un’aggressione della Russia contro l’Ucraina>. Il senatore Ted Cruz del Texas, primo produttore di gas da fraking e n.1 nella campagna di donazioni dell’industria, impone il blocco di oltre 50 nomine di Biden per il Dipartimento di Stato e altre posizioni, come rappresaglia verso il Presidente.

La situazione è ancora fluida. Esercitazioni Nato si tengono su Mar Nero e Mar Baltico con parallele esercitazioni russe ZAPAD 21. Nemmeno Kiev è rimasta ferma. Il 24 marzo 2021 Zelensky ha promulgato un decreto per la riconquista della Crimea. In violazione degli accordi di Minsk, che ha sempre ostacolato, effettua operazioni aeree nel Donbass utilizzando droni, compreso almeno un attacco contro un deposito di carburante a Donetsk nell’ottobre 2021. La stampa americana lo riprende, ma non gli europei e nessuno condanna le violazioni.

Biden sembra targiversare, più a lungo il NS2 può essere rinviato e più la paura di una morsa russa può essere incrementata, più i produttori di gas americani possono approfittarne, pronti a dare assistenza, nel caso, come scrive scrive il Wall Street Journal, citatonell’articolo di cui sopra. Intanto la corsa di truppe Nato e le armi all’Europa dell’est fanno il gioco.

Secondo Whitney invece a questo punto Biden passa a un piano B: creare la percezione che la Russia rappresenti una grave e imminente minaccia per l’Europa. Di qui la campagna mediatica orchestrata che diventata via via isterica e ossessiva e dipinge lo Zar imperiale assetato di territori europei e pronto all’invasione dell’Ucraina e non solo, novello Hitler, ecc ecc.

2022. L’INNESCO DELLA GUERRA. MINACCE e AZIONI. Spinta dalla crisi Ucraina e dalle aumentate vendite in Europa, nel gennaio 2022 gli Usa sono già diventati in primo esportatore di LNG del mondo. E in Europa i prezzi del gas volano. Eppure la Germania ancora resiste. Lenta nel salire a bordo della strategia US/Nato in Ucraina, riluttante a mettere in pericolo in NS2. Sa che le importazioni di gas dagli US, pur accresciute, non sono abbastanza per le necessità di famiglie e imprese, teme di restare a secco.

Finché il piano B entra nel vivo con le minacce esplicite di Biden a Scholz, richiamato a Washington per mostrare la sua fedeltà di alleato. In conferenza stampa alla Casa Bianca, in un’atmosfera di crisi alimentata da dichiarazioni della portavoce Jen Psaki sull’invasione ormai imminente, possibile “in ogni momento, anche domani” secondo Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale, alla presenza di uno Scholz muto e teso, Biden annuncia che <Se la Russia invade, non ci sarà più NS2. Lo faremo finire noi>. Le stesse parole anticipate già il 27 gennaio 2022 dal “falco” Victoria Nuland, l’orchestratrice del colpo di Stato in Ucraina del 2014, ora vice al Dipartimento di Stato.

E ’il 7 febbraio 2022. Nello stesso giorno Macron riafferma a Putin il suo attaccamento agli accordi di Minsk, impegno che ripete il giorno dopo in un’intervista a Zelensky. Ma l’11 febbraio un incontro dei consiglieri del “Formato Normandia” (Francia Germania Ucraina più Russia) si risolve con un nulla di fatto.  Scholz fa concessioni per soddisfare Biden e Zelensky, dilaziona l’attivazione del NS2 a fine 2022. Annuncia un piano per costruire altri terminali LNG.  Ma il processo è andato ormai troppo avanti. Il 14 febbraio il WaPo se ne esce con un articolo sui preparativi del Tiger Team americano per proteggere l’Ucraina dall’attacco.

Putin ha ormai capito l’antifona. Alle sue proposte a dicembre 2021 non è stata data né risposta né pubblicità. E ormai non c’è Minsk, né Macron, né Scholz che tengano. Truppe russe vengono minacciosamente amassate alla frontiera. La Duma chiede di proclamare l’indipendenza delle due repubbliche autoproclamate del Donbass. Putin ancora resiste.

Il 17 febbraio Biden annuncia che Putin attaccherà a giorni. Ne è certo. E non a caso: dal 16 febbraio sono iniziati bombardamenti quotidiani ucraini sul Donbass, certificati dall’OCSE ( vedi qui e qui la tabella sugli attacchi giorno per giorno). Al culmine dei quali, il 21 febbraio Putin infine proclama l’indipendenza delle repubbliche. Queste il 23 invocano l’aiuto di Mosca che decide di venir loro in soccorso con l’”operazione speciale”. La lunga fila di carri armati che da settimane premono minacciosi ai confini, il 24 entrano in Ucraina. E scatta l’”invasione”.

E I NORD STREAM? Per quasi sette mesi si parla solo della guerra, delle sanzioni alla Russia, degli approvvigionamenti di gas alternativi che i vari paesi UE rincorrono qua è la, a prezzi crescenti. Pur di “superare la dipendenza” dal gas dello Zar al quale la Germania non rinuncia e che non vuole mettere a rischio con un (peraltro improbabile) price cap, al quale è ostile anche l’Olanda, che guadagna dal TTF, la borsa del gas di Amsterdam – che usa l’ICE, una camera di compensazione americana. A dispetto della tanto decantata unità UE, ciascuno pensa per sé, e la Commissione per mesi appare paralizzata.

Quand’ecco che a fine settembre i due Nord Stream esplodono. Non solo il contestatissimo NS2 ma, già che ci sono, pure il NS1.

LA GUERRA SOTTERRANEA .  Per Escobar è una vera e propria dichiarazione di guerra, rivolta alla UE ma in primo luogo alla Germania, l’ex locomotiva d’Europa. <Disabilitare i NS rappresenta la definitiva chiusura di ogni possibile accordo sulle forniture di gas, col beneficio aggiuntivo di relegare la Germania a uno status minore di assoluto vassallo degli US>.

Escobar, che scrive a caldo, si chiede quale apparato di intelligence abbia pianificato il sabotaggio: i primi candidati sono CIA e MI6, con la Polonia accanto e la Danimarca che gioca un ruolo ambiguo, impossibile che non abbia avuto almeno un briefing dall’intelligence. E cita varie coincidenze sospette, droni navali con ID in inglese in Crimea, elicotteri US sui futuri nodi del sabotaggio, navi inglesi nelle acque danesi da metà settembre, la Nato che il giorno cruciale twittava sui test di nuovi sistemi in mare senza uomini. 

Ma il punto vero è che ci si possa trovare nella situazione in cui un paese EU/Nato sia coinvolto in un’azione contro il numero uno dell’economia EU/Nato. Un casus belli, in teoria.

Meyssan, che scrive qualche giorno dopo (4/10) è sulla stessa lunghezza d’onda, e va ancora oltre.

Anche per lui il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream è un atto di guerra contro Germania, più Olanda, e Francia. Le tre vie di approvvigionamento di gas dell’Europa Occidentale sono state interrotte simultaneamente ed è stato contemporaneamente inaugurato in gran pompa un nuovo gasdotto dalla Norvegia con terminali in Polonia, il Baltic Pipe  e la manutenzione dl TurkStream è stata sospesa>.

La lotta degli Stati Uniti per conservare l’egemonia mondiale è entrata nella terza fase, scrive Meyssan: dopo l’estensione della NATO a Est, in violazione degli impegni occidentali presi; dopo aver messo a Kiev nel 2014 dei “nazionalisti integrali”(i “nazi” secondo il Kremlino) che hanno perseguitato i russofoni e bombardato il Donbass; è la volta del cambiamento autoritario dell’approvvigionamento energetico dell’Europa occidentale e centrale.  Fino al 26 settembre l’economia dell’UE era fondata principalmente sulla produzione industriale tedesca. Eliminando i NS gli Usa hanno praticamente distrutto l’industria tedesca [e quella italiana molto legata a quella, quanto meno le hanno messe a serio rischio].

<È il più importante sabotaggio della storia. Un atto di guerra ibrida contro Russia (51%) e Germania (30%), comproprietarie di questi colossali investimenti, ma anche contro Olanda (9%) e Francia (9%). Al momento nessuna delle vittime ha reagito pubblicamente. Gli Stati interessati sanno con certezza chi è il colpevole, ma, o non intendono reagire, nel qual caso saranno radiati dalla mappa politica; oppure stanno segretamente preparando una replica a quest’operazione clandestina, sicché quando la realizzassero diventerebbero veri protagonisti politici>. E sul come e il perché Meyssan si interroga in un altro articolo il 18 ottobre (Che gioco fanno Stati Uniti e Germania.

<La Germania, che ha perso la fornitura di gas russo e potrà recuperarne nella migliore delle ipotesi un terzo dalla Norvegia, s’impantana nella guerra in Ucraina. È diventata crocevia delle azioni segrete della Nato, che a conti fatti agisce a suo danno. L’attuale conflitto risulta impenetrabile se si trascurano i legami tra Straussiani Usa, sionisti revisionisti e nazionalisti integralisti ucraini>, scrive Meyssan qui .

Fantasie? Del ruolo nella vicenda ucraina degli Straussiani– più comunemente detti Neoconservatori o Neocon – ha del resto parlato esplicitamente anche il noto economista Jeffery Sachs, non sospettabile di complottismo ma certo controcorrente, e non da oggi.

Il PIANO RAND CORPORATION . Era tutto già scritto? Sembra di sì, a leggere il piano del 2019 della Rand Corporation, il think tank fondato nel 1946 col contributo del Dipartimento della Difesa americano, da sempre legato al Pentagono. Lo studio dal titolo “Over-extending and Un-balancing Russia”  si rivolge anche agli alleati Usa, che sembrano seguirne pedissequamente i “consigli”.

La Russia deve essere attaccata dove è più vulnerabile, cioè nella sua economia molto dipendente da esportazioni di petrolio e gas, è una delle premesse. Quindi: espandere la produzione energetica americana; imporre sanzioni commerciali e finanziarie più pesanti, possibilmente multilaterali (malgrado costi e rischi); accrescere la capacità dell’Europa di importare gas da altri fornitori, non russi, aumentando il numero rigassificatori [per importare il LNG dagli US]. E poi: Fornire aiuti letali all’Ucraina; incoraggiare l’emigrazione dalla Russia di giovani preparati e bene educati; rimuovere la Russia da forum non ONU, boicottare eventi come la Coppa del Mondo per danneggiarne il prestigio…e altro ancora.

Interessanti le misure “ideologiche e informazionali” (mediatiche, ma alcune sembrano vere azioni di disturbo in Russia): diminuire la fiducia nel sistema elettorale russo per creare scontento; creare la percezione che il regime non favorisce l’interesse pubblico russo; incoraggiare proteste domestiche e forme di resistenza non violenta; colpire l’immagine della Russia all’estero.

Seguono molte misure militari, tra le quali spiccano: accrescere le forze US in Europa; aumentare la capacità della Nato europea sul terreno; dispiegare armi atomiche aggiuntive; riposizionare sistemi di difesa e missili balistici US e alleati; spezzare il regime di controllo delle armi nucleari per costringere la Russia a una gara per armi più costose.

Un articolo su questo tema era uscito su affariitaliani.it già a marzo. Un altro più recente è stato rifiutato dal Manifesto, e l’autore Manlio Dinucci, da anni collaboratore, è stato bandito dal giornale.

AGGIORNAMENTI. 1. Un suo peso nella pianificazione delle politiche energetiche ha certo anche l’iniziativa di BlackRock, il maggior fondo di investimenti del mondo con $7000 miliardi gestiti. Il suo CEO Larry Fink in una lettera a wall Street nel 2020 annuncia una radicale disinvestimento nei settori energetici convenzionali, petrolio e gas, in nomme dell’agenda ONU 20230 sul clima. Biden d’accordo. Fink entra nel board del World Economic Forum.

2. Il Financial Times a dicembre segnala che i consumi di gas in Europa nel 2022 sono diminuiti 24% rispetto alla media in gran parte a causa di una diminuita domanda. Per via delle temperature più miti ma anche di imprese meno attive.

3. Scholz è infine uscito dal suo isolamento con un articolo su Foreign Affairs in cui, malgrado il titolo pomettente (La svolta epocale globale. Come evitare una nuova Guerra Fredda in un’era mutipolare) appare totalmente prono agli Usa: alla visione americana dominante su Russia imperiale e Ucraina; totalmente pro Nato, dove alla Germania spetterà il compito di garante della Sicurezza europea grazie agli nvestimenti sul suo esercito; disposto solo a maggiore aperture commerciali verso la Cina e a un dialogo più costruttivo con altri paesi del mondo. E sull’energia? Stop a oil e gas russi. <Abbiamo imparato la lezione – scrive . La sicurezza dell’Europa è legata alla diversificazione e a investimenti per l’indipendenza energetic. In Settembre il sabotaggio dei NS ci ha consegnato questo messaggio>. Testuale. No comment.

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I tamponi molecolari non distinguono fra virus Covid e influenza?

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A insinuare il dubbio è stato sei mesi fa il CDC americano (Centers for Desease Control and Prevention), la massima autorità in materia negli Usa, annunciando che dopo il 31 dicembre 2021 avrebbe ritirato l’autorizzazione concessa in emergenza alla FDA nel febbraio 2020 al test diagnostico RT-PCR per il SARS-CoV-2. Ovvero quello che da noi viene comunemente detto “tampone molecolare”.

Il CDC si rivolgeva in anticipo ai laboratori di analisi affinché adottassero una delle alternative autorizzate alla FDA (link alla lista) e cominciassero la transizione, adottando il metodo Multiplexed “che può facilitare l’individuazione e la differenziazione fra virus SARS-CoV-2 e virus dell’influenza stagionale” (un metodo, in particolare il test salivare SARSeq, sul quale si era espressa la rivista scientifica Nature in maggio.

Ce n’è abbastanza perché siti alternativi e convintamente No Vax come il canadese Global Research si interroghino sulla notizia bomba: se davvero nei prossimi giorni il PCR verrà dichiarato non valido negli Stati Uniti, come da tempo su sito si sostiene. Anche sulla scorta dell’OMS che in effetti ha via via modificato le sue linee guida diagnostiche (qui le ultime ) in quanto il PCR, con una soglia critica solitamente troppo alta, non distingue fra basse e alte cariche virali, considerando tutti ‘contagiati’ allo stesso modo . Adesso si aggiungerebbe l’ammissione, non da poco data la fonte, che il test molecolare, utilizzato da due anni dai governi di Usa e Europa per lockdown, mascherine e greenpass vari, non distingue fra SARS-CoV-2 e influenza.

<Il che spiega la sparizione dei casi di influenza negli USA nel 2020 . E anche l’inflazione di casi COVID, come il Dr. Fauci e le élites DC sapevano sarebbe accaduto>, si spinge a scrivere un articolo, ovviamente alternativo, apparso il 29 dicembre scorso su Instagram.

Ma è veramente così? No, ribatte a ruota il fact checking  di Usa Today, in risposta ai 1000 like arrivati in 24 ore a quel post, più centinaia ad altri simili. Non è che il PCR confonda i due virus, indicando dei falsi positivi che hanno in realtà solo l’influenza – viene spiegato – ma che il test è stato disegnato per il SARS-CoV-2 e non per individuare l’influenza. Il CDC non ha deciso di ritirarlo per quel motivo, si aggiunge.

Per quale altro motivo allora? Questo non viene detto.

https://www.globalresearch.ca/bombshell-cdc-no-longer-recognizes-the-pcr-test-as-a-valid-method-for-detecting-confirmed-covid-19-cases/5765179
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BlackRock e la sua Rivoluzione nel sistema finanziario, economico e politico globale

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Accordo Ue, svolta dell’Europa. Il coro è quasi unanime. Mentre BlackRock esorta gli investitori a puntare sul Vecchio Continente, più avanti rispetto agli Usa. Come stupirsi? Dietro alla ‘svolta’ a ben vedere c’è lo zampino – o zampone – della Roccia Nera, che negli Usa a marzo si è aggiudicata la gestione totale del salvataggio miliardario delle imprese americane da parte della Federal Reserve, diventando ormai la “quarta branca del governo”. Non solo.

La Ue da parte sua , nel suo piano di aiuti da €1000 miliardi emetterà bond comuni ed elargirà fondi e prestiti ai paesi membri, ma lo farà in cambio di riforme, ovvero di interventi nelle politiche fiscali dei governi europei. Una rotta globale indicata giusto un anno nel corso del meeting annuale a Jackson Hole dei banchieri centrali, dietro proposta di emissari della Roccia Nera, sulla base del suo Documento o Libro Bianco pubblicato una settimana prima. Un piano in atto, che un anno dopo Black Rock nell’Outlook sul suo sito definisce <una Rivoluzione>.

Il Covid-19 poi ha aiutato, capitando come si usa dire ‘ a fagiolo’. E oggi Black Rock oltre a gestire gli stress test delle banche europee per conto della Bce, è diventata pure consulente dell’Ue su come incorporare le pratiche ambientali, sociali e di governance nella gestione del rischio da parte delle banche, di gran parte delle quali è azionista e quasi tutte sue clienti. Pratica in cui peraltro eccelle.

Un protagonismo ormai anche politico, quello del maggior gestore di attivi del mondo, che impensierisce non poco gli osservatori più attenti, nel generale silenzio mediatico. In un quadro in cui tre soli grandi giganti gestori di assets- i Big Three, in testa Black Rock con Fidelity e State Street –non solo gestiscono una grandissima parte degli investimenti globali ma detengono quote, anche di controllo, in un numero grandissimo e crescente di corporations e imprese, dentro e fuori dagli Usa a partire dall’Europa, con diritto di voto. Mentre il fondatore e CEO della Roccia Nera Larry Fink è in predicato per diventare Segretario al Tesoro in una eventuale amministrazione di Joe Biden.

Ma ricominciamo dall’inizio.

Black Rock, l’irresistible ascesa. Sulla scia di un articolo di Limes (a firma del prof Germano Dottori) Underblog si era già occupato della Roccia Nera nel 2015, chiedendosi se davvero il ‘Moloch della finanza globale’ fosse responsabile del cambio di scena in Italia nel 2011, quando Deutsche Bank, di cui BlackRock era azionista di controllo, aveva per prima ritirato i suoi capitali nei titoli di Stato italiani, spingendo il nostro paese sull’orlo del famigerato ‘baratro’. Non era Berlino, non erano i poteri di Francoforte a provocare il tracollo, era molto probabilmente stata la RocciaNera, concordava Underblog. Quasi certamente, a giudicare dai fatti successivi.

La Roccia nera era già un gigante e gestiva i rischi di $15.trilioni di attivi segnalava l’Economist che già nel 2103 le aveva dedicato una copertina con una gigantesca roccia nera incombente sull’orizzonte.

Nel contesto della finanziarizzazione globale promossa da Reagan e poi da Clinton, BlackRock aveva visto la luce nel 1988, in partnership al 50% con BlackStone, la mega finanziaria globale di private equity, che qualcuno vede connessa con i Rothschild (il barone Nathaniel Jacob in ogni caso entra nel 2007 nel board), nota dopo il 2008 per essersi impossessata a prezzi stracciati di case pignorate durante la crisi poi rivendute a prezzi gonfiati, racconta Ellen Brown (giugno 2020), avvocato e attivista favore delle banche pubbliche, autrice di vari libri. Che nel raccontare Jackson Hole 2019, ne riassume anche la storia.

<Staccatasi nel1995 dalla partner, BlackRock negli anni ’90 e 2000 accresce i suoi bilanci promuovendo gli MBS, i mutui cartolarizzati ovvero titoli garantiti da ipoteca che hanno fatto crollare l’economia nel 2008. Conoscendo bene il business dall’interno nel 2008-9 era stata incaricata dalla Fed di acquistare i titoli tossici fuori mercato da Bear Stearns e AIG, cosa che la Fed non avrebbe potuto fare da sé>. Le fortune della Roccia Nera sono tuttavia legate soprattutto agli ETF, titoli comprati e venduti come azioni ma che operano come fondi indicizzati, seguendo passivamente indici specifici come l’S&P 500, l’indice delle big corporations in cui investe la maggior parte della gente. Con gli ETF BlackRock si è assicurata trilioni di attivi, in particolare dopo aver acquisito la serie di iShares quando si è impossessata di Barclay Global Investors nel 2009. Al 2020 iShares comprende 800 fondi e $1.9 trilioni di attivi in gestione diretta.

I Big Three. Oggi il settore ETF comprende circa la metà di tutti gli investimenti in azioni Usa ed è altamente concentrato. Il settore è dominato dai tre maggiori gestori di denaro al mondo, i cosiddetti Big Three: Black Rock, Vanguard e State Street, con BlackRock leader assoluto: insieme detengono l’80% di tutti i fondi indicizzati.

Come si vede dalla tabella sui top money managers (non solo di ETF) pubblicata nel recente articolo di BloombergQuint, società indiana partecipata al 30% da Bloomberg News in un articolo recente. Black Rock in testa con $7.4 trilioni di assets globali sotto controllo (un terzo di quali in Europa, e $625 miliardi di piani pensione), seguita da Vanguard Group con $6.2 trilioni , State Street Global Adv con $5.1 trilioni, seguono Fidelity Investment ($3.2) e JP Morgan Asset Mgt ($2.4).

“The spectre of the Giant Three” titolava un anno fa uno studio di due docenti di Harvard, ben riassunto in italiano da Startmag.it, e sui Big Three è oggi puntato l’occhio dell’antitrust americana. Da notare gli intrecci azionari fra gli stessi Big Three, oltre che con le maggiori mega banche, come riferiva già nel 2015 Underblog, citato sopra.

Non solo. <Al 2017 i Big Three sono diventati anche i maggiori singoli azionisti nel 90% delle società S&P 500, comprese Apple, Microsoft, Exxon Mobil, General Electric, Coca Cola ecc, per restare negli Usa . La Roccia nera detiene inoltre principali interessi in quasi ogni mega banca e nei media più importanti.> Così la Brown, cui fa eco Le Monde Diplomatique, gennaio 2020:

<Insieme i tre giganti nella gestione di attivi comulano 15.000 miliardi di capitalizzazione, l’equivalente del PIL della Cina, e controllano un blocco maggioritario di azioni nel 90% delle imprese S&P 500, ma gli altri non sono che nani davanti al Leviatano finanziario, che investe in 5 continenti e, con un giro di affari superiore a $15.000 miliardi ($15 trilioni) e quasi 14.000 collaboratori in 30 paesi, gestisce da sola oltre $6000 miliardi, due volte e mezzo il Pil francese>.

Le quote nelle imprese S&P 500 sono solo la punta dell’iceberg. <La società di Larry Fink ha quote nel 40% di tutte le imprese americane e vota in 17.000 cda, possiede più azioni in Google, Amazon, Apple, Microsoft  dei fondatori di tali società>.

La mira, spiega Le Monde Diplomatique, è acquisire un peso sufficiente nel capitale in concorrenza nello stesso settore, consentendole di influire sulle decisioni: come è accaduto per i prezzi nelle società aeree Usa, che fanno capo alla Roccia Nera. E in Europa? Lo vedremo più avanti

Aladdin. E’ la carta vincente della Roccia Nera, per la precisione di Black Rock Solutions: una piattaforma software iper sofisticata, “una rete di codici, scambi commerciali, chat, algoritmi, modelli predittivi”, che funziona come una Intelligenza Collettiva, spiega sul suo sito, (vedi anche Seekingalpha), ma anche sorta di oracolo . Attraverso tale rete la Roccia Nera scopre le vulnerabilità e valuta e prevede opportunità e rischi per i suoi clienti, diretti indiretti, piccoli e grandi, privati e istituzionali come governi, assicurazioni e quant’altro- compresi i gestori di assets suoi rivali (come Bloomberg LP, parente di Bloomberg News), monitorando ben $20 trilioni – $20.000 miliardi – di assets nel mondo. Niente a che vedere con le Mille e una Notte, il nome è l’acronimo di Asset, Liability, Debt and Derivative Investment Network)

L’incarico dalla Fed . Non sorprende che <quando la Fed ha avuto bisogno di aiuto per la sua missione di salvataggio pandemico si sia rivolta direttamente a Larry Fink, diventato il più importante suggeritore industriale del governo>, scrive BloomberQuint. Espertise e capacità di azione immediata hanno guidato la scelta nell’urgenza, ha ammesso il presidente Fed Jerome Powell in audizione.

In marzo la  Roccia Nera si è così aggiudicata, senza gara e senza alcun dibattito al Congresso, un contratto in base alla legge CARES (Coronavirus Aid, Relief, and Economic Security Act) per utilizzare $454 miliardi di fondi sciolti assegnati dal Tesoro insieme alla Fed. Questi fondi potrebbero avere un effetto leva per fornire oltre $ 4000 miliardi di crediti Fed. <Mentre il pubblico era distratto da proteste, sommosse e lockdown – commenta Ellen Brown – Black Rock è di colpo emersa come “quarta branca del governo” – secondo la definizione del prof Willam Birdthistle, del Law College dell’università di Chicago – gestendo il controllo sul denaro stampato su richiesta dalla banca centrale>.

Il nuovo compito assegnato a Black Rock è molto più vasto di quello svolto durante la crisi del 2008. La prima parte, in atto dal 12 maggio, consiste nell’acquisto di ETF. E che gli ETF e i bond sottostanti siano al cuore della crisi da Covid e avessero bisogno di un salvataggio lo riconoscono esperti citati da Brown. Ma la società potrebbe finire per comprare i fondi che gestisce – come sta già accadendo per il 47% degli ETF acquistati – con evidenti conflitti di interesse.

La Roccia nera si difende sostenendo di non averne la proprietà ma di agire come mera custode. A differenza delle banche non fa investimenti per sé. “Agiamo come fiduciario della Fed di New York  (il cuore della banca centrale) afferma un portavoce della società”.

Con i suoi ultimi incarichi è un argomento difficile da far valere, osserva Graham Steele dall’Università di Stanford, che è ha lavorato per la Fed di S.Francisco, citato da BloombergQuint. “Sono così intrecciati nel mercato e col governo che è un groviglio di conflitti davvero interessante”.

 “Perché assegnare tutto il denaro da gestire a una sola società?”, chiede Birdthistle. E polemiche, anche sull’assegnazione dei fondi ai grandi di Wall Street , ce ne sono già se Powell il 29 luglio scorso ha tenuto a dichiarare che “Black Rock è solo il nostro agente, le decisioni le prendiamo noi, BlackRock esegue i nostri piani”. Nessuna replica dalla diretta interessata.

<BR gestirà i portafogli dei corporate bonds e dei debiti ETF. Farà lo stesso per i nuovi bond, talvolta agendo come unico compratore- e fino al 25% dei prestiti sindycated dalle banche. E acquisterà gli MBS da agenzie semigovernative come Fannie Mae e Freddie Mac. Otterrà $48 milioni annui di compensi, poco per una società i cui profitti l’anno scorso ammontavano a $4.5 miliardi – ulteriormente saliti del 21% nel primo trimestre 2010 – ma potrà cementare i legami dei suoi gestori con i politici>. Peraltro già assai forti.

Larry Fink e i suoi tentacoli. <La sfera di influenza di BlackRock  – che si è costruito anche un potente ufficio legale – va oltre la banca centrale e comprende avvocati, presidenti e capi di agenzie governative di entrambi i partiti, sebbene più volto ai Democratici>, secondo BloombergQuint. <Solo un pugno di executives vengono dall’amministrazione di George W Bush, più di una dozzina da quella di Obama, sonocompreso il consigliere per la Sicurezza nazionale di Obama, il consigliere per la politica del clima, l’ex vicepresidente della Fed, e numerosi economisti della Casa Bianca, del Tesoro e della stessa Fed.>

Fink, il fondatore e CEO di BlackRock è da sempre considerato più vicino ai Dem. <Nel 2012 era nella lista per sostituire il segretario al Tesoro Tim Geithner in uscita. E ora è ampiamente considerato per quel posto in una eventuale amministrazione Biden, anche se non è chiaro come sarebbe visto dall’ala sinistra dei Dem, per quanto abbia la stima di membri di Wall Street amici del partito>, è ancora Bloomberg Quint a scrivere.

Del resto il business primario della società, la gestione di ETF, è stato acclamato in quanto rende gli investimenti più facili ed economici. E, per quanto Fink sia la bestia nera degli ambientalisti perché alcuni dei suoi fondi detengono quote di società di energie fossili, ha messo le mani avanti per prepararsi al contrasto del cambiamento climatico. Scrivendo lui stesso una lettera di impegni, di cui ha dato notizia anche Startmag.it.

<La sua influenza va ben al di là degli Usa. La Bank of Canada in marzo lo ha preso come consulente per i suoi acquisti di commercial papers, il debito che le società fanno per finanziare giorno per giorno le loro spese. E il mese scorso la UE lo ha assunto per consulenze su come integrare le pratiche ambientali, sociali e di governance nei modi in cui le banche gestiscono il rischio>.

BlackRock in Europa. <Larry Fink, il capo dei più potenti fondi mondiali, è nel suo aereo, destinazione Europa. Sull’Atlantico, chiede al comandante di collegarsi con la Germania. Chiede al suo responsabile regionale a Francoforte ed esige un incontro con Angela Merkel. Possibilmente entro cinque ore dal suo atterraggio>. Comincia con questo aneddoto, raccontato da una ex dipendente, un articolo del del 2018 del sito di investigazione e opinione francese Mediapart intitolato “BlackRock, il Leviatano della finanza che pesa sulle scelte europee”. Il seguito per abbonati.

Attac-54 ne riassume i punti salienti, dopo varie cifre sulla dimensione del gigante, con clienti in 100 paesi, e un terzo degli assets sotto il suo controllo in Europa: <Contemporaneamente consigliere delle banche centrali e principale azionista dei fiori all’occhiello industriali, mormora all’orecchio degli Stati europei. Punti chiave: contrastare ogni regolamentazione finanziaria e imporre pensioni private a capitale per tutti>.

Dopo la crisi finanziaria ha accresciuto il suo potere ben al di là della gestione di attivi: lo si ritrova come uditore delle banche a richiesta delle autorità di regolazione, come consigliere di Stati sulle privatizzazioni. Nell’autunno 2017 è stato invitato dal governo francese a presiedere il comitato CAP2022 volto a designare i futuri contorni dello Stato.

BlackRock propone ad altre entità finanziarie di mettere a loro disposizione i suoi strumenti per la gestione del rischio. Ma offre anche servizi alle autorità finanziarie. Che lo sollecitano a valutare la salute di grandi istituti bancari considerati sistemici.

Solo in Francia è azionista tra il 5 e il 10% di una serie di grandi industrie (esempi) e spesso l’azionista principale di almeno 172 società quotate nella Borsa francese, oltre ad avere il voto in 17.000 imprese del mondo. Quanto all’Italia, Underblog nel 2015 aveva fatto un elenco delle sue partecipazioni. L’articolo più recente trovato oggi è di Financecommunity.it, 29 luglio 2020, dedicato alla squadra italiana.

<La presenza italiana del gigante Usa risale al 2000, nel 2006 la fusione con la banca di investimenti Merryl Linch gli porta in dote vari manager fra i quali il capo dell’attuale squadra italiana Andrea Viganò, già responsabile del Sud Europa. A fine 2013, in Italia gli asset in gestione da parte di BlackRock  valevano 52 miliardi di dollari con 8 miliardi raccolti nel corso dell’anno. Oggi i fondi esteri controllano il 38% di Piazza Affari, e il primo investitore estero, secondo in assoluto dietro lo Stato italiano, è la Roccia Nera che, attraverso 156 società, ha partecipazioni per 20 miliardi di euro, con un controvalore delle azioni italiane raddoppiato rispetto a un anno fa. Negli ultimi mesi la società ha aumentato le quote, in particolare nel settore bancario, in cui è presente con il 5% circa di Intesa Sanpaolo e Unicredit e il 6,8% del Banco Popolare>.

Ma torniamo a Mediapart, che segnala gli interventi europei di BlackRock già durante e dopo la crisi del 2008. In Irlanda, la banca centrale gli aveva chiesto di valutare lo stato di sei banche irlandesi, la Grecia, sotto pressione della Troika, si era rivolta alla società di Fink per dissequestrare i portafogli di prestiti di 18 banche (2011) poi ancora delle quattro maggiori (2013).

Anche l’Olanda aveva chiamato BlackRock per analizzare il portafoglio di ING, banca sull’orlo del fallimento, di cui il gigante Usa deteneva il 5%. Dijsselbloem, ministro delle finanze e allora presidente dell’Eurogruppo, si era giustificato. Sebbene, ironia, la banca centrale olandese da 2007 avesse assegnato proprio alla Roccia Nera la gestione dei fondi pensione dei suoi impiegati.

E a Bruxelles? Da una fonte interna all’Europarlamento si apprende che BlackRock organizza “giornate di informazione” per gli assistenti parlamentari scrive Attac54 raccontando Mediapart (nel 2018 ricordiamo). E fosse solo questo. Viene citata Daniela Gabor, docente di macroeconomia all’università di Bristol, che dal 2013 ha seguito i dibattiti sulla regolazione finanziaria quando il Commissario Michel Barnier prometteva di rinforzare le regole sul sistema finanziario (come oggi conta di fare Paolo Gentiloni equilibrando i sistemi fiscali e ridimensionando i paradisi, vedremo):

Ho capito che ad avere il potere non erano più le banche ma i gestori di attivi “, ha osservato Gabor, citata anche da Ellen Brown. Secondo la quale BlackRock riflette la rinuncia al welfare state da parte dello Stato. Il suo potere crescente si accompagna con i cambiamenti strutturali in corso, nella finanza ma anche nella natura dei contratti sociali fra i cittadini e lo Stato. E la BCE, che sollecita BlackRock come uditore delle banche, non ha alcun potere su quella società”.

<Il potere acquisito dalla Roccia nera sugli Stati è orizzontale, in quanto azionista di imprese a priori in concorrenza può spingere verso concentrazioni, specializzazioni, cessioni. Come accade già nella Chimica dove domina il settore con partecipazioni in tutti i grandi gruppi mondiali>.

Alle stesse conclusioni arrivava del resto nel 2018 l’articolo Blackrock – The Company That Owns the World del gruppo di ricerca multinazionale Investigate Europe, che rimandava poi a Mediapart.

In sintesi: <Minacce alla concorrenza attraverso il possesso di quote in società in competizione, offuscamento dei confini fra capitale privato e affari pubblici lavorando accanto ai regolatori, battaglie per la privatizzazione dei piani pensione così da canalizzare i risparmi nei suoi fondi>.  E sulle pressioni per riformare le pensioni europee insiste molto Le Monde Diplomatique .

La Roccia Nera consulente della BCE. Nel dicembre 2018 il Sole24Ore se ne usciva con la “rivelazione” dell’incarico a Black Rock da parte della Bce di eseguire gli stress test bancari. Una prassi non nuova, quella di esternalizzare tale compito per mancanza di tecnici qualificati. “Se ne accorge solo ora?”, commentava Startmag.it.

La notizia peraltro era stata pubblicata in ottobre da Don Qujones, pseudonimo di un analista economico su cose europee e non solo collaboratore del noto sito californiano Wolfstreet. Con considerazioni sui precedenti ben più interessanti.

<Nel 2014 la Bce ha assunto BlackRock Solutions come consulente su come implementare l’acquisto di titoli garantiti da attivi delle banche centrali europee. In altre parole – spiegava- prima di imbarcarsi in uno dei più vasti programmi di QE della storia, la Bce ha cercato i consigli del maggior gestore di asset, la società che più ha investito negli attivi che intendeva acquistare>.

La Bce era presieduta da Mario Draghi, che a gennaio 2015 lancerà l’atteso programma di Quantitative Easing da €60 miliardi.   

Nel 2016 la Roccia Nera viene di nuovo assunta dalla banca centrale europea, questa volta per condurre gli stress test. L’incarico del 2018 è un’estensione di quel contratto. Il costo, rivelato dalla stessa Bce dopo le pressioni tedesche, è relativamente basso: €8.2 milioni. <Ma l’importanza dell’incarico è nelle informazioni privilegiate che BlackRock si assicura su banche di molte delle quali, se non tutte, detiene pacchetti di azioni e in due terzi delle quali figura come consulente, aiutandole nelle verifiche>.

La società di Larry Fink esclude conflitti di interesse, e parla di una ’muraglia cinese’ tra le diverse branche della società stessa (dove peraltro per passare da un settore all’altro a un manager bastano solo due settimane di sospensione, scrive la Brown). Non tutti non tutti sono convinti . “Le dimensioni di BlackRock danno luogo a un potere di mercato che nessuno Stato è più in grado di controllare” aveva osservato il parlamentare tedesco Michael Theurer, membro dell’europarlamento dal 2009 al 2017, citato da Wolfstreet. Fosse solo un potere di mercato. La “piovra vampira”, vampire squid, definizione coniata a suo tempo da Matt Taibbi in un celebre pezzo su Goldman Sachs, è vista da alcuni come un vero e proprio “governo ombra”.

<Come Goldman Sachs, BlackRock sta estendendo i suoi tentacoli attraverso l’Europa e spende grandi somme in lobbying e nel catturare politici e funzionari come l’ex presidente della Swiss National Bank, la banca centrale svizzera, Phillip Hildebrand diventato vicepresidente con ruoli di primissimo piano nella società e l’ex capo del Tesoro britannico George Osborne>, racconta BloombergQuint.

A Jackson Hole, 2019. Non sorprende a questo punto la notizia data da Ellen Brown e riportata all’inizio di questo post, protagonista proprio Hildebrand.

<L’importanza e il peso politico di BlackRock sono apparsi evidenti quando quattro dei suoi manager esecutivi, capeggiati dall’ex capo della Swiss National Bank Phillip Hildebrand hanno presentato una proposta meeting annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole dell’agosto 2019>. Un incontro come sempre dalla natura dichiaratamente economica e politica.

<Essendo a conoscenza che i banchieri centrali non avevano più munizioni per controllare la fornitura di denaro e l’economia, BlackRock ha detto che era tempo che le banche centrali abbandonassero l’indipendenza a lungo vantata e affiancassero alla politica monetaria (compito usuale delle banche centrali) una politica fiscale (compito tradizionale dei legislatori)>. La crisi del Covid ha offerto l’opportunità perfetta, scrive Brown, che mette in relazione quanto sopra con il piano americano di salvataggio, gestito da BlackRock. Un approccio che appare limitato.

Un governo ombra globale? E’ infatti significativo che quella della Roccia Nera non fosse semplicemente una “proposta”. Bensì un vero e proprio Piano, molto articolato, presentato il 15 agosto, qualche giorno prima del simposio di Jackson Hole, come si può leggere sul suo sito, a cui rimandiamo. Un Piano globale, ambiziosamente intitolato Dealing with the next downturn, ovvero come affrontare la prossima fase discendente. Che appariva già ben chiara un anno fa. Covid o meno.

Il Piano è stato messo in pratica, come la stessa BlackRock spiega sul suo sito nell’Outlook dell’11 giugno 2020, compiacendosi del fatto che <in questi due mesi la politica macroeconomica ha visto niente di meno di una Rivoluzione>. Parola chiave su cui insiste anche più avanti. Policy revolution, Rivoluzione delle politiche, è del resto il titolo.

<La risposta politica odierna è di una scala completamente diversa da quella data nella crisi finanziaria del 2008. Non solo è stata più rapida e di una ampiezza ben superiore a quella di ogni altro momento storico, ma i cardini delle strutture della politica globale e dei mercati finanziari sono stati del tutto trasformati>, viene spiegato, anche con tabelle. Aggiungendo già nel sottotitolo che <Senza appropriate barriere di sicurezza e una strategia di uscita, vediamo una china scivolosa>.

BlackRock indica tre aspetti della rivoluzione. In estrema sintesi: *dare liquidità direttamente a famiglie e business * politiche monetarie e fiscali mescolate esplicitamente *sostegno alle imprese con condizioni stringenti, aprendo le porte a un intervento senza precedenti nel funzionamento dei mercati finanziari e di governance delle imprese. Seguono maggiori dettagli.

<Questa rivoluzione politica era inevitabile, data l’insufficienza delle politiche monetarie nel rispondere a una significativa, drammatica fase discendente> – dell’economia globale si presume.  Una discesa invero poco raccontata nelle cronache mediatiche, sempre propense all’ottimismo, e a presentare gli Stati Uniti, guardando essenzialmente a Wall Street, come un solido blocco economico, a dispetto di allarmi da parte degli economisti più avveduti. Le ricette di BlackRock sono rivolte anche all’Europa.

Conclusioni. Che il sistema sempre più globalizzato e intrecciato sia ormai gestito dalle banche centrali, con la Fed in primo piano e con un ruolo di guida, era da tempo evidente, così come il crescente peso di BlackRock come gestore di asset e consulente, dominante nell’ambito dei Big Three.

La novità sembra essere l’approdo della RocciaNera a pianificatore e controllore globale, con l’avvallo delle banche centrali stesse. Mentre il ruolo dei governi, e della stessa Ue, sembra scivolare quasi in secondo piano. A dispetto dei sovranisti, che se la prendono con falsi bersagli.

Un destino inesorabile e inevitabile, nel tentativo di puntellare la supremazia occidentale? Probabilmente sì.

Con buona pace degli analisti anche i più critici che si attardano ancora a puntare il dito sui conflitti di interessi, e della stessa Brown . Dopo aver sottolineato come le politiche pubbliche siano oggi condotte a favore del mercato azionario, considerato il barometro dell’economia sebbene abbia ben poco a che fare con l’economia reale e che BlackRock sia ormai nelle condizioni di controllare l’economia, e aver assodato, col citato Peter Ewart, che “oggi il sistema economico non è più il capitalismo classico ma un capitalismo monopolistico dove i confini fra Stato e oligarchia finanziaria sono virtualmente inesistenti”, da strenua fautrice del pubblico nell’economia e nelle stesse banche, Brown avanza una proposta utopica, o quanto meno irrealistica :

<Se tali oligarchi sono troppo grandi e strategicamente importanti per essere spezzati secondo le leggi antitrust, dovrebbero essere nazionalizzati e messi al servizio del pubblico. Quanto a BlackRock dovrebbe per lo meno essere regolato come un istituto Finanziario di importanza Sistemica (cosa che è finora riuscita ad evitare per sfuggire alle pur blande regole della legge Dodd-Frank, aggiungiamo). Meglio ancora regolarla come una utility pubblica. Quale amministrazione lo farà mai?

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Cinese o americano o…? Il giallo del coronavirus uscito da un laboratorio si allarga.

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Sul virus “fabbricato” o meglio, fuoriuscito da un laboratorio ora indagano i Five Eyes, le intelligence che fanno capo ai paesi anglofoni. E chissà che non saltino fuori sorprese interessanti, ancorché diverse dalle aspettative di Trump, disperatamente in caccia di capri espiatori per il disastro pandemico nel suo paese e ansioso guadagnare credito in vista del voto di novembre.

La Virus Connection appare infatti assai più ampia di quanto l’abbia descritta l’ottimo recente articolo di Alberto Negri.

Pipistrelli catturati e spediti qua e là per via aerea in Australia, virus che viaggiano da un continente all’altro dal Canada, legalmente o meno, ma anche negli US, ricercatori cinesi al lavoro in laboratori occidentali e laboratori cinesi con finanziamenti americani e francesi, virus vecchi e nuovi replicati e conservati per anni ovunque, manipolazioni e ingegnerizzazioni genetiche azzardate. E discusse, bloccate negli US dopo vari incidenti, e permesse di nuovo.

Vicende che vanno avanti da tempo, come ammmette infine una ricerca americana.

Dal 2002, quando nella provincia cinese del Guandong è comparso il virus della SARS, sindrome acuta respiratoria severa, un’epidemia con oltre 8000 casi e 774 vittime in 17 paesi ma quasi tutti tra Cina, Hong Kong e Singapore, si sono mobilitati ricercatori di Canada, Francia, Rotterdam, Usa  e naturalmente Cina. Soprattutto, la SARS ha lanciato ricerche a tutto campo sui coronavirus da pipistrelli, prima ignorate.

Tanto più dopo che nel 2014 spunta misteriosamente a Jedda un altro coronavirus, ancora più letale, il MERS-CoV, detto Sindrome respiratoria Mediorientale in quanto si è propagato soltanto in Medio Oriente (il che ha rafforzato le teorie complottiste su virus mirati geneticamente, cosa in teoria possibile, a quanto pare).

Intanto epidemie di virus influenzali zoonotiche si susseguono con effetti anche gravi, dall’H5N1 “aviaria”, nota da fine secolo, alla pandemia dell’H1N1 “suina” del 2009-2010, che produce milioni di infettati e decine di migliaia di morti, quasi tutti nel continente americano, oltre a valanghe di polemiche per i molti milioni spesi da molti Stati (Italia compresa) per vaccini inutili comprati su indicazione dell’OMS.

Progetti di studi e grandi Piani di Prevenzione con finanziamenti pubblici si infittiscono, insieme ad esperimenti di ingegneria genetica. In una gara spasmodica verso test diagnostici, farmaci e soprattutto vaccini, business miliardario. In primo luogo negli Usa a partire dal 2009. Ma anche altrove, e in Cina naturalmente, che oggi si vanta di essere in testa a una produzione vaccinale per il SARS-CoV2 con tre progetti molto avanzati.

INIZIO. Da Jedda a Winnipeg via Rotterdam, e poi in Cina. Chissà se le intelligence troveranno interessante la rocambolesca vicenda lanciata dal sito alternativo filo-Trump Zerohedge già il 26 gennaio 2020, pochi giorni dopo il lockdown di Wuhan, col titolo provocatorio “La Cina ha rubato un coronavirus dal Canada e l’ha armato?”.

Una storia ambigua, che ha però alcuni punti fermi, e comincia il 13 giugno del 2012. Quando da un paziente saudita 66enne ricoverato all’ospedale di Jedda con febbre e sintomi respiratori gravi, Mohammed Zaki, virologo egiziano noto per aver identificato il virus MERS, isola un coronavirus SARS sconosciuto. E contatta Ron Foucher, eminente virologo dell’Erasmus Medical Center di Rotterdam per un consiglio. Foucher lo sequenzia usando un campione mandatogli da Zaki.   

Il virologo olandese è esperto del ramo. Fa esperimenti di ingegneria genetica sui virus e, raccontava il Corriere della sera nel 2011, <ha scoperto che bastano cinque variazioni genetiche per trasformare il virus dell’aviaria – H5N1- in un agente patogeno altamente contagioso, tale da poter uccidere metà della popolazione mondiale>.

Se /quali nuove manipolazioni vengono fatte all’Erasmus su quel nuovo coronavirus SARS non è dato sapere. Fatto sta che 4 maggio 2013 quel virus lo ritroviamo in Canada, acquisito da Frank Plummer, direttore scientifico del Laboratorio Nazionale di Microbiologia (NML) di Winnipeg. Dove il coronavirus viene replicato in quantità per ricerche su test diagnostici, e su quali animali sono più soggetti ad essere infettati. Cose sulle quali quel lab ha esperienza.

Plummer morirà misteriosamente nel febbraio 2020 in Kenia, dove collaborava con due università keniote sull’HIV, di questo virus era specialista e lavorava da tempo a un vaccino. (Di qui le ipotesi indiane sul SARS-Cov2 combinato con pezzi di HIV poi smentite dagli scienziati?)

La storia di Zerohedge continua raccontando il caso di un virus pericoloso finito in Cina dal Canada nel marzo 2019 e di come, a suo dire, l’indagine sia ancora in mano ad esperti di guerra batteriologica. Il NML di Winnipeg è l’unico lab di massimo livello di sicurezza (BSL4), uno dei pochissimi in Nord America (un altro è il laboratorio militare Usa di Fort Dietrick, Maryland , chiuso improvvisamente lo scorso agosto, su cui hanno ricamato alcuni post complottisti uno dei quali russo, smentiti da un altro sito altrettanto alternativo-complottista).

Si tratta sempre di quel coronavirus SARS-CoV o addirittura modificato, come insinua ZH? Contrabbandato da agenti cinesi o magari semplicemente trasferito per scopi di ricerca?

Al centro della scena c’è la dr. Xianguo Qio, scienziata laureata nell’Hubei e ma nel 1985 in Canada, dove è rimasta al NML, dal 2006 al lavoro sui virus più a rischio insieme al marito cinese pure lui. Responsabili del presunto ‘contrabbando’? Mah.  La dott Xianguo Qio, che in una foto si vede ritratta con colleghi, fra i quali uno di Harvard, tra il 2017 e il 2018 risulta essersi recata almeno cinque volte in Cina, proprio nel National Biosafety Laboratory dell’Istituto di Virologia di Wuhan (WIV), BSL4 dal 2015. Sul quale oggi si è appuntata l’attenzione mediatica, dal momento che proprio in quella città è scoppiato il COVID-19.

L’ISTITUTO VIROLOGIA DI WUHAN (WIV) e LA FRANCIA. Fondato nel 1956 da due scienziati cinesi sotto l’egida dell’Accademia Cinese delle Scienze, come Istituto di Microbiologia, diventa WIV nel 1978. Ma il salto di qualità lo fa nel 2004, quando nell’ambito dei buoni rapporti fra Chirac e Hu Jintao, deciso dopo la SARS a dare impulso alla lotta contro le infezioni, progetta di trasformarlo in un laboratorio di massima sicurezza.

L’accordo viene firmato da Michel Barnier, allora ministro degli Esteri. Ma poi non succede nulla, e Sarkozy, annuncia l’inizio dei lavori solo nel 2010, quando sono già stati varati Piani e Progetti da parte degli Stati Uniti, ai quali US Sarko’ è certo più legato del suo predecessore. Il WIV avrà il suo laboratorio BSL-4 soltanto nel 2015 (costo $44 milioni) fra varie polemiche in Francia, sulle aziende francesi inadatte, i 55 ricercatori del lab di Lione previsti ma mai arrivati, i sospetti sulla Cina dei servizi francesi e americani – secondo Le Figaro e Challenges.fr. In Cina da tre anni c’è ormai Xi Jinping, forse più interessato a buoni rapporti con gli US.

E GLI SPECIALISTI DI PIPISTRELLI. Al WIV le intelligences indagheranno certo su Peng Zhou, che tra il 2011 e il 2014 ha speso ben tre anni  all’Australian Animal Health Laboratory di Victoria dove era stato spedito dalla Cina per completare il suo dottorato, preso al WIV. Lì svolge ricerche, dandosi da fare per trasportare pipistrelli vivi dal Queensland  ( o dalla Cina? azzardiamo) alla struttura di bio contenimento di quel lab di Victoria, dove sono stati vivisezionati e per studiare virus letali in ricerche finanziate dal CSIRO, agenzia governativa federale australiana responsabile della ricerca scientifica e dall’Accademia Cinese delle Scienze. Così racconta il Daily Telegraph australiano.

Diventato il massimo specialista nel sistema immunologico dei pipistrelli – “come mai quei mammiferi che sono i serbatoi naturali di coronavirus non si ammalano?” Si era chiesto, ancora studente di bio ingegneria, dopo aver contratto la SARS nel 2003 – Zhou ritorna a Wuhan e, con 30 pubblicazioni scientifiche anche su riviste internazionali, diventa capo del  Bat Virus Infection and Immunization Group al National Biosafety Lab del WIV.

 “C’è quest’uomo dietro la pandemia globale di coronavirus?” Titolava di nuovo Zerohedge il 29 gennaio, insinuando dubbi su di lui senza uno straccio di prova, l’articolo corredato da una foto schifosissima dell’ormai famigerato mercato Huanan di pesci e animali selvatici vivi, chiuso dal 1 gennaio, dal quale si ipotizzava fosse originato il nuovo virus . Un post che a ZH è costato la sospensione da Twitter, previa denuncia di Buzzfeed  – sito sospetto che in pieno Russiagate aveva pubblicato il famigerato dossier fake di Christopher Steel: un segnale del mescolarsi di notizie, provocazioni e perduranti conflitti fra pezzi di intelligence.

La Bat Woman. Indagano certo i Five Eyes sulla dottoressa Shi Zheng-Li, che nel medesimo WIV dirige il Center for Emerging Infectious Diseases. Con lei Peng Zhou collabora attivamente da anni, anche nella ricerca di pipistrelli “ferro di cavallo” (horseshoe bats) nelle grotte dello Yunnan e del Guanxi, le regioni del sudest della Cina dove si trovano queste specie portatrici di coronavirus simil-SARS, come hanno scoperto.

Shi Zheng-Li, 55 anni, è la maggiore esperta al mondo di coronavirus & pipistrelli, nella sua carriera oltre a importanti articoli ha messo insieme una banca ragguardevole di dati, virus e campioni fecali ragguardevole, tanto da essere soprannominata Bat Woman, o la Signora dei pipistrelli, nel più gentile appellativo di Negri. Dottorato a Montpellier nel 2000, dove ha speso qualche anno, la Francia l’ha in seguito onorata del titolo di Chevalier de l’Ordre del Palmes academiques. Non sappiamo se per ricerche comuni.

Anche Shi Zheng-Li comunque usa muoversi fuori dalla Cina.

Dal 22 febbraio al 21 maggio del 2006 per esempio era in Australia, è sempre il Telegraph a raccontare. E poi chissà. Fatto sta che nel 2019 la dottoressa diventerà membro dell’American Academy of Microbiology. E’ormai la beniamina della ricerca USA sui coronavirus. Come dimostra il lungo articolo divulgativo che le ha da poco dedicato Scientific American, con molte foto (qui in italiano) elogiando le sue qualità e capacità. Indubbie.

Dimenticando tuttavia di citare non solo il suo soggiorno in Australia. Ma altre ricerche e, soprattutto, un passaggio delicato e molto controverso: la creazione di un virus chimera, un coronavirus nuovo frutto di ingegneria genetica. Un esperimento condotto nel 2014 insieme a un team internazionale, la cui premessa è però un’altra importante ricerca longitudinale che si snoda negli anni precedenti. E dopo ancora.  

Il percorso scientifico di Shi. Dopo aver scoperto per prima già nel 2005 che il coronavirus della SARS veniva da un pipistrello (Science e Journal of General Virology 2005), la dottoressa Zheng-Li era andata in caccia di pipistrelli portatori di quel virus setacciando grotte e villaggi nelle regioni del sud est della Cina, Yunnan e Guanxi, da sola e insieme a Peng Zhou. Finalmente ne trovano una dozzina con anticorpi di virus SARS: sono pipistrelli di un tipo particolare, “a ferro di cavallo” (horseshoebat), che diventeranno centrali nelle successive ricerche. 

Dal 2011 al 2012 Zhang-Li conduce quindi una ricerca longitudinale su diversi coronavirus simil-Sars raccolti in 117 campioni fecali in una colonia di pipistrelli a Kunmig, Yunnan, un villaggio dove diversi minatori si erano infettati da un fungo cresciuto su guano di pipistrello.

Alla fine da quei pipistrelli “ferro di cavallo” identifica e sequenzia due coronavirus, i più vicini mai trovati al SARS-Cov, il virus della SARS: al 99,9%, con altre caratteristiche uguali. E inoltre da un campione fecale isola un primo virus vivo simil-SARS, praticamente identico al SARS-CoV (99,9%, con altre caratteristiche uguali).

Risultati che provano con grande forza: 1. che i pipistrelli cinesi horseshoe sono i serbatoi naturali dei coronavirus SARS (che sono più d’uno); e 2. Che ospiti intermedi possono non essere necessari per infettare gli uomini, come di solito non succede con i Coronavirus.

C’è il condizionale: il contagio diretto è ancora una possibilità.

La ricerca successiva, quella più controversa, prosegue su quella linea. Partendo dalla mera possibilità di una trasmissione diretta dal virus nel pipistrello horseshoe all’uomo, produce il virus chimera inserendo la proteina di quel coronavirus nel genoma di un virus adattato a crescere nei topi . E dimostra che quel coronavirus è veramente in grado di infettare cellule umane in vitro.

Suggerendo che virus in circolazione in certi pipistrelli in Cina sono potenzialmente capaci di infettare l’uomo. Anche senza mutare e passare da un altro animale, come si credeva necessario.

<Quel virus ibrido ci ha permesso di valutare la capacità della nuova proteina spike di causare infezioni indipendentemente da altre mutazioni adattive nel suo ‘ospite’ naturale> spiegherà, in difesa, Ralph Baric, dell’University of North Carolina, nel dibattito che ne è seguito, rilanciato quest’anno quando di quella ricerca si è ricominciato a discutere a fine febbraio, quando narrazioni mediatiche ipotizzavano la natura artificiale, manmade del virus portatore del COVID-19, smentite con forza su Lancet da un pool di scienziati.

Alla Cina veniva addirittura imputato di aver prodotto una bio-arma e di essersi lasciata sfuggire quel virus, che veniva fatto coincidere con quello odierno che causa il COVID-19. Ipotesi che arrivate pure in Italia, via Business Insider e riprese più tardi via Rai Tgr Leonardo (cavalcate persino da Salvini per dare addosso alla Cina, e magari farsi bello con Trump)

L’ipotesi viene smentita recisamente dai ricercatori in quanto il virus odierno NON è quello ingegnerizzato di quella ricerca. <Se quel virus chimerico fosse sfuggito dal laboratorio, la sua sequenza dovrebbe essere identica o per lo meno simile al coronavirus del COVID-19 > ha spiegato Antonio Lanzavecchia, immunologo italiano a Zurigo. Intervistato dal Manifesto dopo le polemiche sul Tgr. Resta il fatto che, come vedremo, ingegnerizzazioni del genere sono ad alto rischio per la popolazione, dovessero quei virus saltar fuori da qualche parte per errore.

Ma cosa c’entrano Baric e Lanzavecchia? C’entrano eccome, in quanto non si tratta affatto di ricerche cinesi, quanto meno non soltanto cinesi.

PROGRAMMI e FINANZIAMENTI USA. La prima ricerca appare su Nature, 30 ottobre 2013, firmata da Shi Zheng-Li insieme a Peter Doszak, zoologo americano esperto in malattie infettive degli animali, ma soprattutto presidente dell’EcoHealth Alliance, “organizzazione di ricerca globale” no profit di New York dal nome tranquillizzante, oltre a un altro scienziato dell’Animal Health Institute di Victoria, Australia e vari altri.

Alla seconda prende parte la solita Shi Zheng-Li (Laboratory of Special Pathogens and Biosafety, Wuhan Institute of Virology, Chinese Academy of Sciences, Wuhan, China, si legge). Ma il coordinatore, è Ralph Baric, del Department of Epidemiology, University of North Carolina, Chapel Hill, con vari ricercatori della stessa università americana, un altro della Harvard Medical School, oltre all’italiano Lanzavecchia, del Bellinzona Institute of Microbiology di Zurigo, come elenca Nature, 9 novembre 2015 .

Nessuno dei due studi può dunque dirsi cinese. Sebbene cinesi siano sicuramente i virus e i pipistrelli, compresi i campioni fecali, che il Wuhan Institute of Virology conserva con cura, specie da quando il suo laboratorio nel 2015 è diventato BLS 4.

Ma dove si sono svolte le ricerche, in particolare quella del virus chimera? In un laboratorio americano o cinese? A Wuhan o in North Carolina, o nel laboratorio della FDA (Food and Drug Administration, che fra l’altro licenzia i nuovi farmaci) in Arkansas, come insinua un sito ‘alternativo’?  Da Nature non risulta nulla.

Quel che è certo è che anche la ricerca in questione ha avuto finanziamenti statunitensi, come precisa un “Addendum” di Nature Medicine del 20 novembre 2015 che accenna a una dimenticanza precedente e cita: “USAID-EPT-PREDICT funding from EcoHealth Alliance”.

Decrittiamo: PREDICT è uno dei quattro progetti dell’Emerging Pandemc Threat (EPT), vasto programma dell’USAID – United States Agency for International Developement (collegato alla CIA, secondo alcuni), in partnership con l’Eco Health Alliance l’organizzazione caritatevole globale finanziata al 91% da grants governativi presieduta da  Peter Deszak, quello della ricerca del 2012-13, vedi sopra.

Un programma vasto, globale e ambizioso lanciato già nel 2009 – amministrazione Obama, in continuità con un altro del 2005 varato dopo l’influenza aviaria H5N1, che seguiva la SARS. Con lo scopo di prevenire pandemie virali, individuando in anticipo nuove infezioni e preparando risposte. Finanziato ogni 5 anni, dal 2019 al 2019 ($200 milioni) ha raccolto 145.000 campioni animali e umani scoperto 931 nuovi virus e analizzato 218 conosciuti, addestrato 6000 persone in 30 paesi-si legge sul sito. Un ombrello dietro il quale c’è di tutto. Comprese le ricerche finanziate da istituti o centri che fanno capo al NIH, il National Institute of Health  americano che comprende vari centri.

Fra i quali spicca il NIAID- National Institute of Allergy and Infectious Deseases diretto da Antony Fauci fin dal 1984, in continuità con tutti presidenti da Ronald Reagan in poi. Immunologo distintosi per il suo lavoro su HIV/AIDS nel 1990, Fauci è membro del Consiglio che supervisiona il Global Vaccine Action Plan lanciato nel 2010 dalla Gates Foundation, la fondazione di Bill e Melinda Gates, nonché il Decennio di Collaborazione sui Vaccini della stessa fondazione.

E’ con il sostegno del NIAID che passa il finanziamento del NIH di $3.7 milioni all’Istituto di Virologia di Wuhan per le ricerche sul coronavirus. La seconda fase, dal 2019, per altri 5 anni, ne prevedeva altri $3.7 milioni. E tralasciamo un altro importante studio della dr. Zheng-Li con Peter Deszack e altri ricercatori cinesi, apparso nel 2017 su Journals.plos.org

Finché Trump non blocca il tutto nel marzo 2020. Proprio mentre un funzionario dell’amministrazione chiede alla Cina di poter <lavorare direttamente con laboratori di Wuhan con ricerche sul nuovo coronavirus, per salvare vite globalmente>, racconta Reuters.

LA MORATORIA USA SULLE RICERCHE A RISCHIO. E GLI INCIDENTI. Nel frattempo era successo qualcosa di importante. Nell’ottobre 2014, l’amministrazione Obama aveva <sospeso temporaneamente nuove ricerche che rendono certi virus più letali o più trasmissibili> chiedendo espressamente ai ricercatori di valutare il rapporto rischi/benefici di ricerche spinte e su virus manipolati in laboratorio di influenza, SARS e MERS. Vedi Nature, che ne discute, dopo aver dato la notizia .

Con la moratoria vengono stoppati 21 progetti, chiusi due laboratori del CDC (il centro USA per il controllo e la prevenzione delle malattie), fermata la spedizione di campioni biologici.

La ricerca di Baric & Zheng Li, è in corso, rientra fra quelle e l’anno dopo susciterà infatti un mucchio di critiche, come dal successivo articolo di Nature rilanciato oggi.

Sotto accusa è il cosiddetto metodo “Gain of Function” (GOF), in sostanza gli esperimenti di ingegneria genetica volti ad accrescere la trasmissibilità e la virulenza del patogeno: <per capirne meglio caratteristiche, debolezze e potenzialità, così da riuscire a identificare i bersagli di nuovi farmaci antivirali per prevenire infezioni nei soggetti a rischio o trattarle meglio>, li difendeva il dr Fauci già nel 2011, quando questo dibattito è cominciato.

Ma ben 200 scienziati si opponevano, sottolineando i rischi di bio-sicurezza di queste ricerche, in grado di provocare vere e proprie pandemie in caso di incidenti, ricorda oggi Newsweeek in un articolo durissimo dal titolo significativo: Dr Fauci backed controversial Wuhan Lab.

E di incidenti ce ne sono stati eccome negli USA, culminati in quell’anno 2014 in cui Obama decide lo stop, informa Sciencemag.org , citato da Asiatimes qui. La chiusura dei due laboratori federali del CDC e l’alt ai trasferimenti avviene dopo l’accidentale invio di virus dell’antrace e la scoperta di sei fiale contenenti vaiolo dimenticati, scoperte in un magazzino refrigerato in un lab della Federal Drug Administration e del NIH a Bethesda, Maryland.  

In un altro incidente un pericoloso ceppo di influenza era stato accidentalmente inviato da un laboratorio all’altro: magari è proprio il virus ingegnerizzato da quello H5N1 dell’influenza aviaria che si diffonde per via aerea nei furetti di cui scrive Nature nel dare la notizia della moratoria. 

Un laboratorio CDC dove si studiano i virus influenzali a metà marzo 2014 ha spedito un ceppo poco patogeno di H9N2 a un laboratorio del Dipartimento dell’Agricoltura che studia il pollame. Salvo scoprire poi che era contaminato con il ceppo H5N1 dell’aviaria, molto più virulenta e capace di infettare anche gli uomini.

Si citano poi gli esperimenti di Yoshiro Kawaoka dell’Università del Wisconsin, a Madison, sulla trasmissione aerea tra mammiferi di un virus che combina l’H1N1 con geni simili al ceppo dell’influenza Spagnola.

Per dire l’andazzo degli esperimenti ad alto rischio, compiuti a volte a mero scopo dimostrativo. Come la ricostruzione in laboratorio del virus del vaiolo ormai scomparso (ma conservato negli US e in Russia) : finanziata non da fondi federali ma da una azienda farmaceutica di New York con soli $100mila, viene però condotta nel 2017, in Canada, da un virologo dell’Università di Alberta, David Evans, incollando come in un puzzle frammenti di DNA comprati su Internet, dove viene poi divulgata. Segue polemica.

E che dire dei dubbi avanzati nell’ormai lontano nel 2009 sul virus dell’influenza suina H1N1, quello della pandemia proclamata anzi tempo dall’OMS e dei milioni di vaccini fatti comprare – inutilmente – ai governi mezzo mondo, Italia compresa? Secondo tre ricercatori australiani potrebbe essere stato un prodotto artificiale, magari solo frutto di un “errore” di laboratorio. All’esame genetico, quel virus secondo loro risultava infatti prodotto da tre linee virali suine diverse, apparsi in tre diversi continenti e in anni diversi.

RICERCHE OUTSOURCED? Dopo la messa al bando delle ricerche su virus potenzialmente pandemici, Fauci decide di esternalizzare gli studi più rischiosi sui coronavirus nell’istituto di virologia di Wuhan al quale vengono garantiti finanziamenti. Ne parla Asiatimes ma pure Newsweek. E non si tratta solo della ricerca di Baric & Zheng Li, e della successiva del 2017 della stessa BatWoman con altri.

Altri studi vengono compiuti, come quello dell’aprile 2018 che identifica un nuovo coronavirus che fa strage di suini in Cina, collaborazione fra WIV, EcohealthAlliance, Duke-NUS Medical School e altri, finanziamento arrivato dal NIAID di Fauci.

Si spiega allora come mai nel gennaio 2018 l’ambasciatore Usa in Cina invii due cables allarmati a Washington, per i livelli di sicurezza a suo dire scarsi nel laboratorio del WIV di Wuhan dove avrebbe fatto compiere un’ispezione, come ha “rivelato” in aprile il Washington Post con grande pompa. Notizia inspiegabile senza conoscere il contesto.   

Nel dicembre 2017amministrazione Trump– la moratoria era stata infatti sospesa, sia pure con nuove regole: i progetti pericolosi possono riprendere dopo che un panel di esperti avesse valutato se i rischi sono giustificati. Ma le valutazioni restano segrete. E dopo che Science scopre il via libera dato a due progetti su virus dell’influenza usando i famigerati metodi GOF, scienziati contrari denunciano con violenza queste ricerche in un editoriale sul Washington Post

Successive ricerche erano previste dal 2019 sui coronavirus- continua Newsweek –  con esperimenti ingegneristici in vitro e in vivo e analisi dei recettori umani ACE2,  per predire le potenzialità di spillover, ovvero la capacità di quei virus di saltare direttamente dagli animali agli uomini.

Finché Trump non blocca quella nuova tranche di progetti e finanziamenti federali. E, nel tentativo di considerare la Cina responsabile della pandemia Covid-19, sulla scia di analoghe richieste da parte di alcuni Stati americani si spinge a minacciare cause legali alla Cina da parte degli Stati Uniti con richieste di rimborsi miliardari.

E tuttavia, osserva AsiaTimes, non è chiaro quali ramificazioni legali vi potrebbero essere se il virus che ha causato la pandemia attuale fosse sì uscito da un laboratorio Cinese, ma come esito di un progetto di ricerca esternalizzato e finanziato dal governo americano.

Di più. Dei ceppi di coronavirus non potrebbero invece provenire da laboratori americani, dal momento che la moratoria sulle ricerche GOF è stata sospesa dalla fine del 2017 e che da allora le ricerche su quei virus di a rischio pandemico sono poi andati avanti negli stessi US ?

L’accusa in ballo non è la creazione artificiale del SARS-CoV2  ma la fuoriuscita del virus da un laboratorio, per un errore umano.  Un incidente.

Eventualità che per quanto riguarda il WIV viene negata recisamente da Shi Zheng-Li, tanto più dopo aver controllato uno a uno tutti i campioni di virus conservati nelle sue banche virali, nessuno dei quali coincide o è compatibile con il SARS-CoV2, afferma.

IL SECONDO LAB DI WUHAN. Ma a Wuhan non c’è solo quel laboratorio. E chissà se le intelligence indagheranno anche su quello del Wuhan Center for Disease Control & Prevention, il CDC di Wuhan. L’ipotesi che il virus del COVID-19 possa essere fuoriuscito da lì, in alternativa al WIV, era stata avanzata da due ricercatori cinesi già a febbraio, ripresa da Zerohedge e circolata in UK e pure in Italia, ben raccontata da Wired:

Botao Xiao, della South China University of Technology di Guangzhou, e Lei Xiao della Wuhan University of Science and Technology ne avevano parlato in un breve report pubblicato in pre-print.

Osservavano: 1. che il SARS-CoV-2 è geneticamente identico tra l’89 al 96% a quello scoperto nei pipistrelli horseshoebat che abitano in province – Yunnan e Zhejiang – distanti ben 900 km da Wuhan, dove pipistrelli non se ne vendono né se ne consumano. Potrebbe essere arrivato a infettare gli umani dopo essere passato, mutando, attraverso qualche altro animale – come affermano vari scienziati, animali finiti magari su banchi del famigerato mercato Huanan di animali vivi, che però secondo altre ricerche non sarebbe all’origine del virus. Ai due ricercatori non pare probabile.

 2. Nel lab CDC di Wuhan, che sorge ad appena 280 metri dal mercato, i due ricercatori hanno accertato l’utilizzo proprio di quel tipo di pipistrelli. Una ricerca in particolare ne avrebbe coinvolti circa 150 , catturati nella provincia di Zhejiang, sui quali sarebbero state effettuate operazioni chirurgiche e biopsie e i cui prodotti di scarto, se smaltiti in modo sub-ottimale, rappresenterebbero una possibile fonte di infezione situata ad appena pochi passi dall’ epicentro dell’epidemia. Quel laboratorio, a differenza del WIV, ha un livello di sicurezza BLS2, non 4 come afferma il professor Pregliasco su Wired.

Aggiungiamo tre coincidenze significative: il report dei due ricercatori è poi scomparso (anche se ancora reperibile) e uno dei due si poi tirato indietro; anche la dr: Zheng-Li si era meravigliata che il nuovo coronavirus fosse apparso proprio a Wuhan; il CDC di Wuhan appare il responsabile dei ritardi nella comunicazione al Centro di Pechino dello strano virus, non ancora identificato ma che sembrava causare quelle nuove gravi infezioni polmonari osservate e segnalate da diversi medici locali, in primis l’oftalmologo Li Wenliang che, inizialmente screditato, alla fine ne morirà diventando un eroe in Cina e fuori. Tanto che Xi Jinping ne azzererà i vertici.  

Come dire che, se proprio si vuole puntare su un errore della Cina, bisognerebbe guardare lì? Chissà.

Un articolo di Kristian Andersen  (Scripps Research Institute, La Jolla, California) e altri americani, apparso il 17 marzo su Nature-Medicine, pretende di dire l’ultima parola sulle origini del SARS-CoV-2.

<Ricerche di base che comportano il passaggio di coronavirus di pipistrelli simili ai SARS-CoV in culture e/o modelli animali sono andate avanti per molti anni in laboratori di livelli di sicurezza 2 in giro per il mondo – afferma citando proprio la ricerca di Zhen-Li e Derszak del 2013 – e ci sono documentati esempi di fughe da laboratori di virus SARS-CoV. Dobbiamo quindi esaminare la possibilità di una fuoriuscita inavvertita del SARS-CoV-2 >.

Una ammissione molto grave, appena sminuita dal giudizio successivo:

<Sebbene le evidenze mostrino che il SARS-CoV2 non è un virus manipolato di proposito, è attualmente impossibile provare o negare le altre teorie descritte sulle sue origini>. Servono altri studi.

Le intelligence hanno insomma materia su cui indagare. E torniamo in testa al post: la Virus Connection è davvero grande.

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La campagna anti-Cina e la (falsa) narrazione sugli Uiguri detenuti nei campi.

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Il premio Sakharov assegnato dall’Europarlamento a un attivista cinese pro Uiguri ha irritato Pechino. L’ambasciatore all’UE Zhang, veterano della diplomazia cinese, lo ha citato nelle sue rimostranze per le crescenti tensioni che minano i rapporti commerciali con l’UE e gli investimenti cinesi, invitando ad agire secondo i principi del libero mercato e il multilateralismo.

Ilham Thoti, il premiato, difensore della Comunità Musulmana Uigura, è da anni in carcere per aver promosso l’indipendenza dello Xinjiang, la regione semi-autonoma del nord est della Cina dove vivono 8.6 milioni di Uiguri – etnia turcofona di religione islamica sunnita- insieme a Tibetani, Tagichi, Hui e Han.

Proteste anche maggiori da parte di Pechino e dei media cinesi ha poi suscitato la dichiarazione del calciatore di origine turca dell’Arsenal sul trattamento che la Cina riserverebbe agli Uiguri, incitando i musulmani nel mondo a protestare. Peraltro, stante i rapporti economici di tanti paesi musulmani con la Cina, l’appello è caduto nel vuoto, con l’eccezione, cauta, della Turchia.

La campagna anti-Cina a tutto campo degli Usa di Trump da un pezzo ha messo in primo piano la questione degli Uiguri, musulmani che paradossalmente questa volta l’America difende in nome dei “diritti umani, al pari delle rivolte di Hong Kong. Secondo i media occidentali ben 1 milione di Uiguri sarebbero detenuti in “campi di rieducazione” ovvero “di concentramento” cinesi. Vedremo più avanti il fondamento di tali accuse, sulle quali Underblog si era già soffermato.

LO XINJIANG E LA VIA DELLA SETA. Ma l’aspetto più interessante lo segnala un recente post di Global Research : quel che accade oggi nello Xinjiang, che confina con ben cinque paesi, fra i quali Afghanistan e Pakistan, va visto nel contesto dei mutamenti in corso nell’Asia Centrale.

Lo Xinjiang, territorio desertico largamente disabitato e sottosviluppato, è dotato di riserve petrolifere e minerali ed è fonte primaria di gas naturale per la Cina.

Eppure il punto chiave è ancora un altro: è il fatto che lo Xinjiang rappresenta il centro logistico dell’ambiziosa iniziativa cinese della Belt and Road (BRI). Quell’arida e spopolata regione è la porta di accesso all’Asia Centrale e Occidentale, e ai mercati dell’Europa.

La ferrovia Southern Xinjiang Railway che corre verso la città di Kashgar nell’ovest cinese è oggi collegata alla rete ferroviaria del Pakistan nel Corridoio Economico Cina-Pakistan, progetto della BRI, noto anche come Nuova Via della Seta in omaggio agli antichi percorsi carovanieri che univano Asia ed Europa. Vedi la mappa.

Il governo americano è profondamente ostile a questo grande progetto di sviluppo economico – scrive Global Research – e sta facendo tutto il possibile per sabotare i piani di Pechino. La campagna USA è parte della strategia militare “Pivot to Asia” insieme alle minacce navali nel Sud Est Cinese e al sostegno ai movimenti separatisti di Hong Kong, Taiwan e Tibet” (quest’ultima regione peraltro aspira soltanto ad un’autonomia culturale).

UN MILIONE DI UIGURI PRIONIERI? Non è vero, secondo il post. Che nega quel che il governo americano e i media in genere vanno scrivendo: ovvero che la fonte della notizia del milione di detenuti in campi “di concentramento”, in gran parte Uiguri, sia l’ONU.

Il post cita la smentita fatta in un dettagliato report investigativo da Ben Norton e Ajit Singh intitolato “No, l’ONU non ha riferito che la Cina ha vasti campi di internamento per i musulmani Uiguri’ (Grayzone.com, 23 agosto2018). Il report racconta come questa asserzione molto pubblicizzata sia interamente basata su non provate accuse di un singolo membroamericano –  tal Gay Mc Dougall, di un “comitato indipendente” dal titolo “Comitato Onu per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali”.

 L’Ufficio ONU dell’Alto Commissario per i Diritti Umani del resto ha confermato che nessun corpo ONU o  comunque ufficiale ha mosso queste accuse alla Cina.

NARRAZIONE PILOTATA. <Dopo che questa fraudolenta storia ha ricevuto ampia copertura mediatica, è stata seguita da report del Network of Chinese Human Rights Defenders, rete dei difensori dei diritti umani che ha base a Washington. Un gruppo che riceve la maggioranza dei suoi fondi da sovvenzioni governative, in particolare dalla NED, National Endowment for Democracy legata alla CIA, fonte di finanziamenti per operazioni di ‘regime change’ nel mondo>.Notoriamente, aggiungiamo.

Da notare che il Network of Chinese Human Rights Defenders – segnala il post – ha lo stesso indirizzo di Human Rights Watch, la nota Ong americana per la difesa dei diritti umani, <che è stata la maggior fonte di attacchi a governi presi di mira dagli US, come Venezuela, Nicaragua, Cuba, Siria e Cina. E da tempo chiede sanzioni contro Pechino>.

Ancora. Le fonti del Network di cui sopra comprendono Radio Free Asia, un’agenzia di notizie finanziata da decenni dal governo US, il World Uighur Congress, altra origine di reports sensazionalistici, finanziato anch’esso dalla NED. Il governo americano è anche dietro all’ International Uighur Human Rights and Democracy Foundation e all’Uighur American Association.

Una rete capillare e ben sovvenzionata che secondo Grayzone genera report falsi. Ma apparentemente si presenta come un insieme di gruppi imparziali della società civile, Ong, think tanks e con la copertura dei diritti umani promuove interventi e sanzioni.

UIGURI MERCENARI. Il post continua raccontando come la CIA – che aveva cominciato nel 1979 a operare con l’ISI, intelligence Pakistana, e con fondi sauditi, reclutando Mujiaeiddin in Afghanistan per abbattervi il governo – <per decenni insieme all’ISI ha poi assoldato mercenari Uiguri, pianificando di usarli come forza terroristica in Cina. E atti terroristici e attentati in Xinjiang ne sono stati infatti compiuti diversi, vedi Underblog citato.

<Per la stessa ragione ha arruolato Ceceni dalla regione Russa del Caucaso. Entrambi i gruppi sono stati poi incanalati in Siria per il regime change in quel paese. Queste forze fanatiche, insieme a altri gruppi etnici, hanno formato l’ossatura di Al Quaida e  dell’Islamic State Group. Salvo che dopo l’11 settembre queste forze sono poi state considerate nemiche>.

Gli Uiguri dello Xinjiang furono fra i prigionieri di Al Quaida catturati in Afghanistan e imprigionati per anni a Guantanamo, senza accuse. E nelle peggiori condizioni di detenzione, secondo vari ricorsi legali.

La copertura mediatica sullo Xinjiang intende distogliere l’attenzione dai crimini delle guerre americane, dall’Afghanistan all’Irak alla Siria? Se lo chiede il post, che cita i 27.000 prigionieri detenuti dagli US in 100 luoghi segreti del mondo, come da inchiesta Onu [ricordate le extraordinary renditions?]. E le migliaia di files e video fatti filtrare da Wikileaks che  a suo tempo hanno documentato le torture, esecuzioni sommarie e altri crimini perpetrati in Irak [Abu Grahib eccetera], rivelazioni costate carissime a Chelsea Manning e Assange. E che del dire del CIA Torture Report del Senato americano (2014) che ha confermato il programma di Detenzioni e Interrogatori approvato dai vertici. Su 6000 pagine ne sono state rilasciate solo 525.

Ma torniamo agli Uiguri.

UIGURI IN SIRIA. <Nel tentativo di regime change più di 100.000 mercenari stranieri e forze fanatiche ben equipaggiate, rifornite e ben pagate sono confluite nel paese, dove un terzo della popolazione verrà sradicata e milioni saranno i profughi.

A partire dal 2013 migliaia di combattenti Uiguri furono fatti entrare clandestinamente in Siria per addestrarsi insieme al gruppo estremista Uiguro noto come Turkisstan Islamic Party. Combattendo con unità di Al-Qaida e di Al-Nusra, queste forze hanno avuto ruoli chiave in diverse battaglie>.

Come riferito da Reuters, Associated Press e Newsweek, che hanno parlato di oltre 5000 combattenti Uiguri presenti in vari gruppi militanti in Siria.

Secondo i media Siriani una colonia Uigura ha trasformato la cittadina di Zanbaka, al confine turco, in un campo trincerato per 18.000 persone. Molti combattenti Uiguri erano stati fatti arrivare nella zona di confine turco con le loro famiglie. Parlando turco anziché cinese avevano i sostegno dei servizi segreti turchi.

LA VIA CINESE ALLA RIEDUCAZIONE. Dopo che, fino dagli anni ’90 attacchi terroristici ed esplosioni hanno ucciso centinaia di civili in zone commerciali, treni affollati, stazioni di autobus, la Cina ha infine deciso di adottare nei confronti dei gruppi fanatici ‘armati’ di estremismo religioso un approccio diverso. E ha dato vita grandi centri professionali di educazione e di addestramento.

Anziché peggiorare le situazioni di sottosviluppo con campagne di bombardamenti e arresti, cerca di impegnare la popolazione nell’istruzione, nello sviluppo di capacità e in un rapido miglioramento economico e infrastrutturale. Da quando la campagna è iniziata nel 2017 gli attacchi terroristici nello Xinjiang sono finiti.

POSIZIONI CONTRO E A FAVORE. Lo scorso luglio 22 paesi, per lo più europei più Canada, Giappone, Australia e Nuova Zelanda hanno spedito una lettera al Consiglio ONU per i Diritti Umani criticando la Cina per le detenzioni arbitrarie e altre violazioni nei confronti dei Musulmani nello Xinjiang. Nessun firmatario da uno stato musulmano, sottolinea il post.

Qualche giorno più tardi, un gruppo di 34 paesi – diventati poi 54 – hanno sottoscritto una lettera in difesa delle politiche di Pechino, a sostegno delle misure di contro-terrorismo e de-radicalizzazione in Xinjiang. Tra i firmatari figurano più di una dozzina di paesi dell’Organization of Islamic Cooperation dell’ONU.

Secondo un ulteriore comunicato del 31 ottobre (2019) al Terzo Comitato dell’Assemblea Generale ONU un certo numero di diplomatici organismi internazionali, funzionari e giornalisti si sono recati nello Xinjiang per testimoniare il progresso dei diritti umani e gli esiti del controterrorismo e della de-radicalizzazione. “Quel che hanno visto e udito in Xinjiang contraddice completamente quel che riferiscono i media “, si legge nel comunicato.

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Donald, Bibi and Soleimani 2). Secondo Haaretz.

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Trump voleva riprendere negoziati con Teheran. E Israele si sentiva tradita e minacciava di fare da sola. E’, in estrema sintesi, quanto emerge con chiarezza da svariati articoli pubblicati da Haaretz, quotidiano israeliano abbastanza liberal. Articoli di metà dicembre che ho ritrovato in una email di segnalazioni da parte del giornale che avevo trascurato. Le considerazioni di Underblog su Donald, Bibi e Soleimani nell’ultimo post non erano poi così ingenue. Anzi. E stupisce che i vari giornalisti e commentatori dei giorni scorsi abbiano ignorato il tema.

Gli articoli di Haaretz, news, analisi, opinioni, parlano da soli. Ci limitiamo a riproporne titoli (in maiuscolo), occhielli e prime righe (in corsivo), con traduzione sottostante e i dovuti link (nelle date). Purtroppo la lettura completa è riservata ai soliti abbonati, ma quanto emerge pare sufficiente e significativo.

15 dicembre, News :

ISRAEL WATCHES WARILY AS TRUMP AGAIN TALKS ABOUT IRAN NEGOTIATIONS – Iran threatens destruction, Israel invokes Vietnam – and one Mideast country fears getting caught in the middle .

U.S. President Donald Trump this week brought back into discussion an idea that had almost completely disappeared in recent months: negotiations with Iran…

Traduzione: ISRAELE OSSERVA CAUTAMENTE TRUMP CHE NUOVAMENTE PARLA DI NEGOZIATI CON L’IRAN – L’Iran minaccia distruzione, Israele invoca il Vietnam – e un paese del Medio Oriente teme di essere preso nel mezzo. [a quale paese allude? Forse l’Irak ]

Il presidente US Donald Trump questa settimana è tornato indietro nel discutere un’idea completamente scomparsa nei mesi recenti: negoziati con l’Iran…

16 dicembre, Analisi:

TRUMP IS ACTUALLY UNDERMINING AMERICA’S RELATIONSHIP WITH ISRAEL – Despite offering a veneer of commitment to Israel, the White House is shaping an environment that is less stable and less safe for the Jewish state .

The modern State of Israel was born in the aftermath of World War II, alongside what is now known as the rules-based international order, a liberal global system created in large part by the United States and…

Traduzione: TRUMP STA OGGI MINACCIANDO LE RELAZIONI DELL’AMERICA CON ISRAELE. – A dispetto dell’apparente impegno verso Israele, la Casa Bianca sta dando forma a un ambiente meno stabile e meno sicuro per lo stato Ebraico.

Il moderno stato di Israele nacque dopo la Seconda Guerra Mondiale, seguendo quello che oggi è conosciuto come un ordine internazionale basato su regole, un sistema globale liberale creato in larga parte dagli Stati Uniti e …

16 dicembre, Opinione:

ISRAELIS LOVE TRUMP. THEY ARE NOT THE FIRST TO FALL FOR HIS FALSE PROMISES.

If he’s re-elected, Trump won’t need to appease eagerly pro-Israel evangelicals anymore. He’ll able to indulge his natural inclinations, which might not be quite as friendly toward the Jewish state

U.S. President Donald Trump enjoys support from more than two thirds of Israelis a level of approval he could only hope for among Americans…

Traduzione: GLI ISRAELIANI AMANO TRUMP. NON SONO I PRIMI A CASCARE PER LE SUE FALSE PROMESSE. [GLI ISRAELIANI DOVREBBERO ESSERE MOLTO PIU’ SCETTICI SU TRUMP, si legge nel link] – Se sarà rieletto, Trump non avrà più bisogno di ingraziarsi entusiasticamente gli Evangelici pro Israele. Sarà in grado di seguire le proprie inclinazioni, che potrebbero non essere così amichevoli

Il presidente US Donald Trump gode del sostegno di più di due terzi degli Israeliani, un livello di approvazione che  fra gli Americani può soltanto sperare…

17 dicembre , News:

HOW TRUMP AND NETANYAHU SPLIT WAYS ON IRAN PUSHING ISRAEL TO ACT ALONE.- Though many on the pro-settler right still think Trump is a divine miracle, senior Israeli officials have come to the disquieting realization that, in its hour of need, Israel can’t rely on the president

In very few countries have hopes regarding the Trump administration s foreign policy been as evident as in Israel. And now, the increasing disappointment with Donald Trump is hardly ever expressed publicly by…

Traduzione:

COME TRUMP E NETANYAHU DIVIDONO LE LORO STRADE SULL’IRAN, SPINGENDO ISRAELE AD AGIRE DA SOLA – Sebbene in molti, sul diritto a favore degli insediamenti, ancora pensino che Trump rappresenti un miracolo divino, alti funzionari Israeliani sono arrivati all’inquietante conclusione che, nell’ora del bisogno, Israele non può fare affidamento sul presidente.

In molti pochi paesi le speranze riguardo alla politica estera dell’amministrazione Trump sono state così evidenti come in Israele. E ora, la crescente delusione nei confronti di Donald Trump viene espressa pubblicamente a fatica da ….

18 dicembre, Analisi:

IF ISRAEL HAS TO MANAGE WITHOUT HIS STRATEGIC PARTNER IT WILL STILL SURVIVE – As the Israeli economy has grown, the need for American assistance has decreased and the actual costs for Israel of a dependency on American arms are becoming more evident

The grandiose opening ceremonies of the Olympic Games often serve as a useful venue for informal meetings between world leaders. The Beijing Olympics in August 2008 was no exception. Vladimir Putin (at the…

Traduzione:

SE ISRAELE DEVE GESTIRSI SENZA IL SUO PARTNER STRATEGICO, SOPRAVVIVERA’ LO STESSO – Dal momento che l’economia Israeliana è cresciuta, la necessità di un’assistenza Americana è diminuita e per Israele i costi attuali di una dipendenza dalle armi Americane stanno diventando più evidenti.

Le grandiose cerimonie di apertura dei Giochi Olimpici spesso servono da utili convegni per incontri informali fra i leader del mondo. Le Olimpiadi di Pechino nell’Agosto 2008 non hanno fatto eccezione. Vladimir Putin (al … [peccato qui non leggere il seguito].

Per completezza aggiungiamo un articolo (Opinione) che Haaretz aveva pubblicato l’8 dicembre, per quanto ci sembri allusivo ed enigmatico, specie alla luce dei successivi. La traduzione ne risente.

THE ONE MOVE TRUMP SHOULD MAKE TO ACTUALLY DEFEND ISRAEL – Israel’s defense establishment has always been cool to the idea of a defense treaty with America. But a formal pact is now urgent – and strategically vital

Between salvos of Hamas rockets, Netanyahu shenanigans and Trump s antics, you may have missed the really big news, an issue which will have lasting effects on the U.S.- Israel relationship: are the two states…

Traduzione:

L’UNICA MOSSA CHE TRUMP DOVREBBE FARE PER DIFENDERE DAVVERO ISRAELE – . L’establishment della Difesa di Israele è sempre stato freddo sull’idea di un trattato di difesa con l’America. Ma un patto formale è oggi urgente – e strategicamente vitale.

Tra i fuochi dei razzi di Hamas, i trucchi (o imbrogli, forse relativi alle accuse di corruzione) di Netanyahu e le buffonate di Trump, potreste aver perso la notizia davvero importante, un tema che avrà effetti duraturi sulle relazioni fra US e Israele: due stati sono…

Infine, alcuni articoli pubblicati DOPO il raid di cui Trump si assunto la sola paternità.

5 gennaio, News:

AS QASSEM SOLEIMANI’S MEGALOMANIA GREW; HE BECAME LESS GROUNDED IN REALITY – The late commander of the Iranian Revolutionary Guards’ Quds force believed he was capable of creating a Shi’ite empire in the Middle East .

Qassem Soleimani, the commander of the Iranian Revolutionary Guards’ Quds force, who was killed Friday in Baghdad in an American operation, earned respect for his courage and his close ties to Iran’s supreme leader, Ali Khamenei. He commanded some 15,000 men, a relatively small component of the Revolutionary Guards, and was actually subordinate to the Revolutionary Guards commander, Gen. Hossein Salami. But in practice, he was his country’s No. 1 general, because Khamenei treated him as his adopted son and appointed him his special adviser… [articolo disponibile a tutti]

Traduzione:

Col CRESCERE DELLA SUA MEGALOMANIA, QASSEM SOLEIMANI E’ DIVENTATO MENO ANCORATO ALLA REALTA’- Il comadante delle forze Quds delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane credeva di essere capace di creare un impero Sciita nel Medio Oriente.

Qassem Soleimani, il comandante delle forse Quds delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane, ucciso Venerdì a Bagdad in un’operazione Americana, si era conquistato rispetto per il suo coraggio e il suo stretto legame con il supremo leader dell’Iran, Ali Khamenei. Comandava 15.000 uomini, una componente relativamente piccola delle Guardie Rivoluzionarie, ed era in realtà sottoposto al comandante delle Guardie Rivoluzionarie, Gen. Hossein Salami. Ma in pratica era il N1 del  suo paese, perché come Khamenei lo trattava come un figlio adottivo e lo aveva nominato suo consigliere speciale.

5 gennaio, Analisi:

TRUMP EXPLOITED SOLEIMANI’S MISTAKE, AND NETANYAHU GAINS THE MOST – Like his predecessors over the last half-century, from Nixon to Obama, Trump discovered that the Middle East imposes itself on American foreign policy even when it is no longer dependent on oil from the region

U.S. President Donald Trump wanted to avoid getting entangled in another war in the Middle East after the American failure in Iraq and the 18-year war in Afghanistan. He knew that American public opinion…

Traduzione:

TRUMP HA SFRUTTATO L’ERRORE DI SOLEIMANI, E A GUADAGNARCI DI PIU’ E’ NETANYAHU – Come i suoi predecessori nell’ultima metà del secolo, da Nixon a Obama, Trump ha scoperto che il Medio Oriente si impone sulla politica estera americana anche quando non dipende più dal petrolio della regione.

Il presidente US Donald Trump voleva evitare di restare impigliato in un’altra guerra in Medio Oriente dopo il fallimento americano in Irak e i 18 anni di guerra in Afganistan. Sapeva che l’opinione pubblica americana….

5-6 gennaio, un’Opinione di segno opposto:

TRUMP’S IMPULSIVE SOLEIMANI STRIKE HARMS U.S INTERESTS, AND BENEFIT IRAN – The abruptness of Trump’s decision to target Qassem Soleimani – who deserved his fate – is a burden for Israel and another blow to U.S. strategy in Iraq and Syria, if not the wider Middle East

Traduzione:

L’IMPULSIVO ATTACCO DI TRUMP A SOLEIMANI DANNEGGIA GLI INTERESSI US E BENEFICIA L’IRAN – L’improvvisa decisione di Trump di prendere di mira Soleimani – che si è meritato tale sorte – è un peso per Israele e un altro colpo alla strategia US in Irak e in Siria, se non nell’intero Medio Oriente.

Non è dello stesso parere Daniel Pipes, esponente dei neocon americani ed ex consigliere di George Bush jr. Intervistato su La Stampa del 5 gennaio dichiarava: < L’uccisione di Qassem Soleimani rappresenterà un punto di svolta solo se sarà l’inizio di una nuova strategia più dura sul piano militare che indebolisca l’apparato delle forze di sicurezza iraniane aiutando i cittadini che vogliono provocare la caduta degli ayatollah dall’interno>.

Un punto di vista non proprio rassicurante.

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Considerazioni (ingenue?) su Donald, Bibi e Soleimani

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Nei molti commenti seguiti all’uccisione di Soleimani si cita poco o niente Israele, che pure è un player importante se non decisivo nella regione medio orientale.

Bibi (Nethanyhau) si è subito congratulato con Donald (Trump) per l’azione riuscita. A ragione, dal suo punto di vista. Del resto, come è noto, fra i due i legami sono saldissimi, sia diretti, sia via la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner e via i falchi neoconservatori, l’ala più guerrafondaia e filo Israele dei Repubblicani.

Pur non considerando l’antico progetto del Grande Israele, non sappiamo se messo o no definitivamente da parte, non è un mistero che Israele sia da sempre preoccupato – ossessionato forse – per la sua “Sicurezza” e ostile a chiunque non condivida tale incubo, o fissazione.

Sicurezza che include ovviamente il controllo assoluto ed esclusivo dei territori già assegnati ai Palestinesi –di quel che ne resta (sempre meno). Ma comprende anche una ferma volontà di impedire a qualunque paese di farsi egemone, e una sorta di “supervisione” dei paesi confinanti e vicini: dal Libano all’Irak, alla Siria, meglio se spezzati in staterelli minori, magari su base etnica.

Un’aspirazione non certo estranea agli interventi in quei paesi promossi dagli americani dopo l’11 settembre, spartiacque di una politica aggressiva sponsorizzata dai neocon, autori del PNAC, il Project for a New American Century. Oltre alle motivazioni strategiche legate agli interessi energetici nella regione (oleodotti e gasdotti) pur meno rilevanti oggi dopo l’autonomia energetica americana ottenuta dal fracking, e dai giacimenti in acque israeliane (e Palestinesi? Giammai).

L’Iran, o Persia, è un’altra cosa. Paese di antica cultura, 90 milioni di abitanti, non arabo, grandi giacimenti di petrolio e gas naturale, non si piega facilmente. E’ ostile all’America almeno dal tempo dell’”operazione Aiax”, il golpe con cui UK e USA nel 1953 buttarono giù il governo democratico di Mossadeq installandovi lo Scia’ Reza Palhavi, poi detronizzato dalla rivoluzione del 1979 che portò l’ayatollah Komeini al potere, e alla crisi diplomatica  con gli Usa, umiliati dalla presa in ostaggio di 54 americani nell’ambasciata presa d’assalto e dal fallimento Usa della missione per liberarli, un anno dopo. Un sgarbo mai digerito del tutto.

Da allora l’Iran ha sempre appoggiato i Palestinesi e contrastato i piani americani e israeliani nella regione, diventando per Israele il Nemico per eccellenza. Accumunati in questo sentiment dall’Arabia Saudita, da sempre vicina a UK, USA e sotto traccia a Israele, nonché rivale dell’Iran da cui la divide anche la religione: sunnita wahabita (estremista musulmana) in Arabia, sciita in Iran. Una differenza religiosa su cui i media hanno insistito anche troppo., tralasciando il resto.

Che l’Iran, anche per ragioni interne, aiuti le forze che nella regione si oppongono a Israele e USA  non è un mistero. In Palestina vicini ad Hamas, in Libano a Hezbollah, in Irak agli sciiti (il 60% della popolazione) e ostili alla presenza militare americana, rimasta nel paese. Per non dire della Siria, dove l’arrivo dei Russi, chiesto dallo stesso Soleimani – e avallato dagli USA – per contrastare l’ISIS, ha finito per mantenere saldamente in sella l’amico Assad che americani e israeliani contavano di spodestare.

Tutto ciò ha rafforzato Teheran, che ha stretto accordi di cooperazione militare con Turchia, Pakistan, Afghanistn, Turkmenistan, e si è avvicinato al Qatar, tanto che le basi USA di Al Udeid in Qatar e di Incirlink in Turchia non vengono più considerate sicure (vedi qui recente e Underblog 19/7/19).

Ma ha sempre più impensierito Bibi. Il quale aveva esplicitamente rimproverato Obama per l’accordo 5+1 sul nucleare iraniano del 2015, criticato invece da Donald già in campagna elettorale. Un accordo giudicato “troppo accomodante”. Bibi, che con Obama non aveva buoni rapporti, pretendeva “in cambio” la rinuncia di Teheran ad intervenire fuori dai suoi confini.

Cosa che l’Iran non ha mai fatto. Tanto più che a Obama è seguito Trump, che quell’accordo ha poi disdetto nel 2018, indurendo le sanzioni che già strangolavano l’Iran e di cui l’accordo sul nucleare prevedeva la fine. E minacciando i paesi che non sottostanno al diktat  (vedi Underblog 25/5/19).

Né la pavida Europa, che ancor oggi richiama a parole il rispetto di quell’accordo che Teheran ha dichiarato di non voler più onorare, ha avuto il coraggio di opporsi ai ricatti di Trump che avrebbero colpito le sue banche e le sue industrie. Eppure avrebbe potuto, ne aveva gli strumenti, spiegava in tv  Gianpiero Gramaglia, dell’Istituto Affari Internazionali.  Lo farà adesso, proponendo qualcosa di concreto al ministro degli Esteri iraniano Zarif che l’Alto rappresentante UE ha invitato a Bruxelles? Ne dubitiamo.

A Soleimani, politico accorto oltre che valido generale, tutto ciò – e molto altro -era certo ben presente. E probabilmente sapeva di essere nel mirino. Ma non era il tipo da tirarsi indietro. Anzi.

Con un Libano divenuto più instabile e un Irak dove l’ostilità agli Usa si intreccia con un crescente rigetto di interferenze esterne, forse anche iraniane, a quanto raccontano inviati solitamente corretti come Lorenzo Cremonesi del Corriere, in questi giorni a Bagdad, Soleimani avrebbe cercato di approfittarne? Donald, ma in primis Bibi, molto probabilmente lo temevano.

L’assalto di massa all’ambasciata Usa nella super protetta Zona verde è stato forse il pretesto per mettere in atto un’azione certo non improvvisata, ma da tempo preparata. Un momento e un movente di cui approfittare.

Un gesto a cui si può supporre che lo stesso Pentagono non fosse favorevole. Deciso “da Trump”, è stato infatti detto. Da solo o consultandosi con l’amico Bibi?

Un successo di entrambi, tutti e due sotto elezioni? E’ presto per dirlo. E il mondo segue preoccupato gli sviluppi.

L’assassinio di Soleimani sembra aver ricompattato l’Irak, il cui Parlamento ha appena votato l’espulsione di tutti i militari stranieri, americani e loro alleati, ma anche di altri paesi compreso  l’Iran.  E pure l’Iran , poco tempo fa attraversato da tensioni interne economiche e non solo, a quanto appare dalle immani folle che hanno accompagnato l’arrivo della bara del generale, e dall’orgoglio patriottico alle stelle.

Mentre il fronte occidentale è diviso, con gran parte dell’UE perlessa se non del tutto critica. Al punto che la NATO ha convocato una riunione urgentissima. Vedremo. Certo il venir meno di una mente politica accorta e a suo modo equilibrata come Soleimani lascia un vuoto a Teheran, al di là dello scambio di minacce di ritorsioni, a cui Trump ha risposto per le rime.

E’ un fatto invece l’annunciata ripresa a tutti gli effetti del programma nucleare iraniano di arricchimento dell’uranio in vista di una bomba atomica, che potrebbe indurre i falchi americani (e israeliani) a spingere verso altre avventure.

Non resta di sperare nelle capacità diplomatiche…di Putin e Xi Jin Ping.

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Dietro i progetti del Green New Deal. Follow the money

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“Il Clima. Chi l’avrebbe mai detto. Le mega multinazionali e i mega miliardari già dietro la globalizzazione dell’economia del mondo, la cui ricerca del massimo valore azionario e della riduzione dei costi hanno arrecato tanti danni al nostro ambiente sia nel mondo industrializzato sia alle economie sotto-sviluppate di Africa, Asia, America Latina, sono oggi i principali sostenitori del movimento “dal basso” per la decarbonizzazione, dalla Svezia alla Germania, agli USA, UE e oltre. Effetto di improvvisi sensi di colpa o potrebbe esserci un’agenda più profonda per la finanziarizzazione dell’aria che respiriamo, e più ancora? “.

Così esordisce ironicamente il pur controverso Willam Engdahl, “analista specialista in questioni energetiche e geopolitiche” che i suoi detrattori bollano come “scrittore americano cospirazionista”.

In un post peraltro ben documentato, sia pure controcorrente, getta luce – e ombre – sul cosiddetto Green New Deal: i piani per una ‘economia sostenibile’ di cui sempre più spesso si parla. Post rilanciato da Global Research, sito canadese alternativo ma serio e con moltissimi collaboratori, ma in origine pubblicato da NEO, sito di analisi e notizie che detrattori come EUvsDisinfo.eu (niente a che vedere con l’UE) sostengono sia gestito dall’Istituto di Scienze Orientali dell’Accademia delle Scienze Russa, e comunque ispirato dalla Russia: che da grande esportatrice di gas e petrolio, va aggiunto, non è affatto impegnata sul cambiamento climatico. Precisazioni necessarie.

Che il clima della terra stia mutando sia una realtà è innegabile, le conseguenze le stiamo già vivendo, le divergenze riguardano caso mai il peso del fattore umano e la velocità del cambiamento in atto. Che delle azioni vadano messe in campo è in ogni caso auspicabile. Ma quali azioni? Da parte di chi, con quali effetti e quali costi per i cittadini?

Engdhal non entra nel merito. Analizza invece la Finanza Green, i suoi protagonisti, i suoi recenti ‘testimonial’, la svedese Greta Thunberg e l’americana Alexandria Ocasio-Cortez, e la ‘vera agenda economica’ che a suo dire sta dietro a tutto questo affaccendarsi. Incrociando altri post simili. Dubbi da respingere nell’emergenza in cui siamo proiettati? Complottismi? Accettiamo il rischio.

Più che complottista l’autore ci appare assai scettico. <Qualunque cosa si pensi dei pericoli della CO2 e del rischio che il riscaldamento climatico provochi la catastrofe globale di un aumento della temperatura da 1.5° a 2°, vale la pena di mettere in luce chi sta promuovendo l’attuale flusso di propaganda e di attivismo climatico>, conclude nella premessa. Dubitando però dei reali interessi di tali ‘benefattori’. Magari sbaglia. E tuttavia vedremo come tanto attivismo per ora non sembri produrre grandi effetti nel mitigare il cambiamento climatico in atto che allarma tanti giovani nel mondo. E non solo loro.

LA FINANZA GREEN. <I giganti della finanza hanno cominciato a individuare schemi su come convogliare centinaia di miliardi di futuri fondi in investimenti “green”- in società spesso prive di un valore“climatico”, aggiunge Engdahl – già da qualche anno, ben prima che Al Gore e altri decidessero di usare una giovane studentessa Svedese come manifesto di un’urgenza climatica e dell’appello di Alexandria Ocasio-Cortez per riorganizzare l’economia intorno a un Green New Deal>.

2013. La Climate Bonds Initiative, CBI ,charity creata a Londra. <Dopo anni di attenta preparazione una società immobiliare Svedese, Vasakronan, in marzo emette il primo corporate Green Bond – obbligazione verde – seguita da altri come Apple, SNFC (società delle ferrovie francesi) e Credit Agricole. In novembre Tesla Energy emette il primo derivato solare>.

Il sito della CBI è ancora più preciso. Scrive. <Il mercato dei green bonds parte nel 2007 con una emissione da parte di istituzioni multilaterali come BEI – Banca Europea degli Investimenti e Banca Mondiale. Ma decolla solo nel marzo 2013 dopo che il primo miliardo di dollari viene venduto a un’ora dall’emissione da parte dell’IFC- International Financial Corporation>. La svolta avviene in novembre con l’emissione dei bonds Vasakronan (di cui sopra). Seguita da SNFC, Apple, Credit Agricole ma anche Berlin Hyp (grande banca immobiliare tedesca), Engie (energetica francese), ICBC – Industrial and Commercial Bank of China. Si sottolinea come nel mercato dei green bonds siano entrati Stati e province americani, Città come Johannesburg, una provincia Argentina, governi locali vari e sempre più numerosi.  Il primo derivato solare emesso da Tesla Energy è stato seguito da altri derivati verdi, ad averne emessi più di tutti è Fannie Mae, la società federale americana di mutui a suo tempo coinvolta della crisi del 2008. All’iniziativa aderisce anche Borsa Italiana.

<Secondo Climate Bonds Initiative i più di $ 500 miliardi di green bonds di oggi sono considerevoli>. I creatori dell’idea dichiarano che il loro scopo è conquistare una grande quota dei $45 trilioni (45.000 miliardi) di assets gestiti globalmente indirizzandoli verso entità che si sono nominalmente impegnate a investire in “progetti climate friendly” >, scrive Engdahl.

<Pubblicamente impegnati in investimenti climatici e responsabili>, precisa CBI, secondo la quale i Greens Bonds possono aiutarli a soddisfare tali impegni>. La CBI enfatizza l’enorme domanda per queste obbligazioni verdi- che a differenza delle obbligazioni normali promettono un uso specifico dei proventi – le cui sottoscrizioni sono superiori alle emissioni. Ma chi sono i maggiori investitori?

A guardare gli esempi citati dalla stessa CBI, viene in realtà qualche dubbio: si parte infatti da megainvestitori istituzionali come State Street e BlackRock – due dei decisivi azionisti delle prime megabanche del mondo e partecipi in molte altre banche e aziende, il secondo è uno dei maggiori gestori globali di assets, pari a $7 trilioni; AXA e Aviva, due delle più grandi compagnie di assicurazioni globali e di gestione di fondi, Amundi che gestisce anche fondi pensione, controllata da Credit Agricole. E poi Mirova e Actiam, sempre gestori di assets, e la banca d’affari francese Natixis. In un’altra categoria troviamo Apple e Barclays, megabanca britannica. Quindi governativi come la Banca Centrale del Perù e il Tesoro della California. Infine vengono citate sottoscrizioni da parte di investitori al dettaglio (di risparmiatori) come International Finance Corporation, Tesla Energy  attraverso Incapital, investitore in prodotti a rischio, e la stessa Banca Mondiale che si avvale di Merril Lynch e Morgan Stanley.

Tutti folgorati dalla CO2 e convertiti al bene climatico dell’umanità?

2015. Ma torniamo a Engdalh, che racconta come a promuovere “strumenti finanziari verdi”, primi fra i quali i Green Bonds, siano stati il principe Carlo d’Inghilterra, futuro monarca [e noto ambientalista], la Bank of England, banca centrale britannica, e la City of London, il cuore della finanza globale. Con lo scopo di re-indirizzare i piani pensionistici e i fondi comuni di investimento verso progetti Green. Un ruolo chiave nel collegare le istituzioni finanziarie lo ebbe Mark Carney, che nel 2015 presiedeva il Financial Stability Board della BRI (la Banca dei Regolamenti Internazionali, BIS in inglese (bis.org, nota come “la Banca delle Banche Centrali”, che riferisce anche al G20) quando a dicembre 2015 proprio  il Financial Stability Board dette vita alla Task Force on Climate related Financial Disclosure  o TCFD, (qui in it) tradotto: Task Force per la ‘divulgazione’ finanziaria relativa al clima, per consigliare investitori, prestatori e assicurazioni sui rischi connessi al clima. <Un tema assai bizzarro per delle banche centrali>, osserva Engdahl.

Nel 2016 la TCFD, insieme alla City of London Corporation e al governo britannico hanno iniziato la Green Finance Initiative, per incanalare trilioni di dollari in investimenti ‘green’. E i banchieri centrali del Financial Stability Board hanno nominato le 31 persone della Task Force. Questa, presieduta da Michael Bloomberg, il multimiliardario fondatore dell’agenzia di notizie finanziarie e già sindaco Rep di New York, che oggi aspira a candidarsi per i Dem  alla presidenza Usa, comprende persone provenienti da JP Morgan, BlackRock, Barclays Bank, HSBC- la banca di Londra e Hong Kong più volte multata per riciclaggio di fondi neri e della droga – Swiss Re,  assicurazioni seconde al mondo, Tata Steel (mega gruppo Indiano), Dow Chemical, ENI Oil (la nostra ENI), il gigante minerario BHP Billington e David Blood della Al Gore’s Generation Investment LLC.

Nel luglio 2019. Carney, oggi governatore della Bank of England, è stato anche un attore chiave nello spingere la City di Londra nel cuore della finanza green. Il Cancelliere dello Scacchiere uscente Philip Hammond ha pubblicato un Libro Bianco intitolato ‘Strategia della Finanza Verde: trasformare la Finanza per un Futuro Verde’ in cui sottolinea che “una delle più influenti iniziative emergenti è il settore privato (?) del Financial Stability Board, la Task Force per la divulgazione Finanziaria collegata al Clima [la TCFD di cui sopra] sostenuta da Mark Carney e presieduta da Michael Bloomberg. Questa – aggiunge – è appoggiata da istituzioni che rappresentano $118 trilioni di assets globalmente”.

<Sembra esserci un piano >, osserva a questo punto Engdahl. Secondo lui si tratterebbe di <un piano per la ‘finanziarizzazione’ dell’intera economia mondiale usando la paura e lo scenario di una fine del mondo per raggiungere scopi – a suo dire arbitrari – come “l’emissione zero dei gas serra”>. E’ davvero così? Ne discuteremo alla fine.

Certo, il sostegno alla Task Force -TCFD da parte di ben 898 organizzazioni, quasi raddoppiato nel 2019 dopo l’One Planet Summit di New York del settembre 2018, è significativo ma anche sintomatico. Scorrendo il lunghissimo elenco spiccano tutte le megabanche e i megainvestitori istituzionali (i BlackRock, State Street, più Vanguard e Fidelity ), ancora banche, banche d’affari e gestori di assets di molti paesi- compresa la China Assets Management – e assicurazioni, fondi pensione privati, servizi finanziari, più un gran numero di corporations, compagnie aeree, società petrolifere, di automotive, informatica, energia e gas, acciao (anche Arcelor Mittal); presente il settore pubblico, con autorità di controllo e governi. Molto USA, Europa e Giappone ma anche Cina. Per l’Italia: Intesa SanPaolo, Borsa italiana, Leonardo, Snam.

Engdahl a questo punto sottolinea il ruolo chiave di Goldman Sachs – Carney come del resto Draghi sono ex Goldman- la megabanca più politica e controversa – che ha appena pubblicato il primo Global Index delle principali azioni ambientali, elaborato con il CDP- già Carbon Disclosure Project, tra i cui finanziatori compaiono JPMorgan, HSBC, Merril Linch,Bank of America, Goldman Sachs, State Street – i soliti, insomma.

<Il nuovo indice chiamato CDP Environment EW e CDP Europa EW, ha lo scopo di attrarre fondi di investimento e sistemi pensionistici statali e indurli ad investire in società scelte accuratamente. Fra le compagnie incluse nell’Indice troviamo Alphabet che possiede Google, Microsoft, ING Group, Philips, Danone … e ovviamente Goldman Sachs>.

Precisamo che il Carbon Disclosure Project, Ong basata a Londra – tanto er cambiare – era nato nel 2010, aveva iniziato chiedendo alle maggiori aziende del mondo di condividere informazioni sulle loro emissioni di CO2 e delle azioni intraprese per gestirle, l’82% aveva risposto, ma il progetto che mirava a creare incentivi finanziari era stato molto criticato e non era poi decollato. Ha quindi cambiato strada.

GRETA e ALEXANDRIA. <A questo punto entrano in scena gli attivisti del clima, la 16enne svedese Greta Thunberg e la 29enne Alexandria Ocasio-Cortez che lancia il Green New Deal. Per quanto possano entrambe essere sincere, dietro a loro c’è una ben oliata macchina finanziaria e mediatica che le promuove>, afferma Engdahl.

E’ il “fenomeno Greta”, andata a parlare al recente Summit sul Clima dell’ONU dopo che le mobilitazioni globali suscitate dal suo Friday for Future hanno riempito le piazze di milioni – letteralmente – di giovani e giovanissimi in ogni angolo del pianeta. Cronologia delle proteste, eventi, numeri, adesioni nel puntuale School Strike for the Climate di Wikipedia.

Engdahl però non ne accenna. Racconta invece come la giovane svedese faccia parte di un network ben strutturato collegato all’organizzazione di Al Gore – il candidato Dem alla presidenza Usa nel 2000, sconfitto da Bush – da anni attivo finanziariamente in campo ambientale, presidente del Generation Investment Group LLC. Il suo partner David Blood, ex Goldman anche lui, è un membro della Task Force TCFD di cui sopra creata dalla Banca Internazionale dei Regolamenti . <Greta e il suo amico del clima, il 17enne Jaime Margolin, sono entrambi “giovani consiglieri speciali e membri del consiglio di amministrazione “della Ong Svedese We don’t have time fondata dal suo direttore esecutivo Ingmar Rentzhog.  Il quale è membro del Climate Reality Organization Leaders di Al Gore e fa parte dell’European Climate Policy Task Force. Venne addestrato da Al Gore nel marzo 2017 e a Berlino nel giugno 2018. We don’t have time è partner del Climate Reality Project di Al Gore> (con tutte queste organizzazioni c’è da perdersi).

Il nostro autore ricorda questi legami di Greta, rimandando ai post della canadese Cory Morningstar, citati a lungo dal blog italiano Valigia Blu ma per criticarli purendendosela col Messaggero, raro foglio italiano non di destra  (come la Verità, ripreso da Dagospia, molto più fazioso, e Libero, anche recentemente) ad aver dato spazio ai dubbi sulla ‘spontaneità’ del fenomeno Greta davanti al clamore mediatico suscitato. “Quelle connessionipur reali, ammetteValigia Blu – sarebbero la prova che dietro il fenomeno Greta ci sarebbe una campagna orchestrata da grandi società e organizzazioni che cercano di spostare fondi nell’industria del clima grazie a una narrazione catastrofista secondo la quale ‘non abbiamo tempo’, la catastrofe umanitaria è imminente. Ma è vermente così?” Si chiede. E risponde di no, bollando i critici di complottismo.

Aggiungiamo che altri post come quello di Tony Cartalucci, sul controverso NEO (vedi sopra) ma solitamente attendibile, punta il dito sui sostenitori e finanziatori di Fridays for Future : oltre ad Amnesty, Greenpeace,WWF – ovvii – vi sarebbe 350.org, a sua volta supportata da 200 diverse fondazioni fra le quali spicca la Oak Foundation dietro la quale si muoverebbero l’immancabile George Soros con la sua Open Society Foundation e soprattutto la NED, la National Endowment for Democracy, organismo americano di soft power nato nel 1983 per promuovere la democrazia all’estero, in effetti implicata nelle varie ‘rivoluzioni colorate’ made by US.

Il post racconta anche come il Climate Resistance Handbook , manuale volto a consigliare agli attivisti climatici come organizzarsi, prefazione di Greta, pubblicato da 350.org citi esplicitamente come esempio a cui rifarsi la Serbia, dove protagonista delle rivolte fu il movimento Otpor, ampiamente finanziato dagli USA), come ha riconosciuto lo stesso New York Times (linkato).

Complottismi? Engdahl passa ora alla Ocasio-Cortez che, <appena entrata al Congresso – è la più giovane parlamentare – ha subito fatto scalpore rivelando il progetto di un Green New Deal per riorganizzare completamente l’economia degli US al costo forse di $100 trilioni. Lei stessa ha ammesso in un’intervista che deve tutto a due organizzazioni Dem, Justice Democrats e Brand New Congress che le hanno chiesto di candidarsi. Ora tra i suoi consiglieri c’è il co-fondatore di Justice Democrats, Zack Exley, già membro della Open Society Fondation (Soros) che insieme alla Ford Fundation ha assicurato i fondi per l’organismo volto a reclutare nuovi parlamentari.

LA VERA AGENDA E’ECONOMICA, secondo Engdahl, che aggiunge altri retroscena. <Nel Febbraio 2019, dopo il discorso di Greta alla Commissione Europea a Bruxelles, l’allora presidente Jean Claude Junker dopo aver galantemente baciato la mano alla giovane attivista, ha detto in conferenza stampa che l’UE dovrebbe spendere centinaia di miliardi di euro per combattere il cambiamento climatico nei prossimi dieci anni. Tra il 2021 e il 2027, ha proposto, “ogni 4 euro spesi nel budget UE devono mitigare il climate change. Quel che Junker non ha detto è che la decisione non ha niente a che vedere con la causa di Greta.. E’ stata presa insieme alla Banca Mondiale un anno prima, nel settembre 2018, al One Planet Summit, insieme a World Economic Forum, Bloomberg Foundations, e altri. Junker ha solo sfruttato l’attenzione mediatica verso la giovane Svedese per promuovere l’agenda climatica>.

<Il 17 Ottobre 2018, pochi giorni dopo l’adesione UE al One Planet Summit, Junker ha firmato un Memorandum of Understanding con Breakthrough Energy-Europe i cui membri avranno accesso preferenziale a ogni finanziamento. Tali membri comprendono Richard Branson di Virgin, Jack Ma di Alibaba, Marck Zuckerberg di Facebook, il Principe Al-Waleed bin Talal, imprenditore multimiliardario della famiglia reale saudita, il fondatore del Carlyle Group David Rubenstein, Bill Gates, George Soros, qui in veste di finanziere, presidente del Soros Fund Management LLC, Masayoshi Son, fondatore della Softbank giapponese>.

Gates il 17 ottobre scorso ha incontrato l’alta rappresentante europea Federica Mogherini per discutere piani comuni di sviluppo umano – e digitale – in Africa. L’UE e Gates hanno anche firmato un impegno congiunto per investire $100 milioni in società europee che si dedicano a contrastare il cambiamento climatico, vedi qui.

UE. Aggiungiamo recenti notizie dall’UE.

BEI. “La Banca Europea degli Investimenti diventa la prima Banca Climatica”, raccontava il Financial Times il 15 novembre scorso. Dopo 11 ore di discussione, ha deciso di cancellare ogni investimento in combustibili fossili, compreso il gas, entro il 2021 (Germania a favore, Ungheria e Polonia contrari). La BEI diventa così il primo prestatore multilaterale al mondo a limitare investimenti in base a preoccupazioni climatiche.

Budget. Sul tavolo la proposta di €168.3 miliardi per il 2020, +1.3%. Alcuni Stati membri vogliono tagliare €1.5 miliardi, tagliando anche i salari. Europarlamentari chiedono invece di aumentare il budget di €2.7 miliardi da spendere per il clima e la ricerca.

BCE. La nuova presidente Christine Lagarde rispondendo all’Europarlamento ha fatto capire il suo orientamento (qui l’articolo di Business Insider e qui il Rapporto collegato) sulla “transizione ecologica”. Ne emerge un gran cautela ma una volontà precisa.

“La discussione sul se come le banche centrali e i supervisori possano contribuire a mitigare il cambiamento climatico è ai primi passi, ma deve essere considerata una priorità”, afferma Lagarde. La BCE – aggiunge – “si è concentrata sul sostegno dei partecipanti al mercato, dei legislatori e di coloro che definiscono gli standard per identificare i rischi del climate change e fornire uno schema per riorientare i flussi finanziari”.

Finora nel suo programma di acquisti di asset la Banca si è rifatta al principio di neutralità del mercato, senza penalizzare o favorire assets specifici. Tuttavia la Commissione si sta muovendo per arrivare a una definizione e cassificazione di Assets Green, la cosiddetta Tassonomia. La BCE sostiene queste iniziative (…). Appena tale tassonomia verrà concordata dovrà decidere se e come applicarla al suo programma di acquisti di assets.

Per quanto riguarda i green bonds, la cautela aumenta. <Questo segmento costituisce per ora una piccola porzione dell’universo degli assets finanziari>. Inoltre – come si è detto- <la classificazione degli assets green è a uno stadio preliminare>. I bonds verdi detenuti dalla Bce <sono oggi una piccola quantità>.

La BCE partecipa al Network di Banche Centrali e Supervisori (NGFS) volto a rendere più verde il sistema finanziario – l’unico forum del genere al mondo mirante a <capire e governare rischi finanziari e opportunità del climate change, e mobilitare la finanza mainstream per sostenere la transizione verso un’economia sostenibile>. Interessante la provenienza dei presidenti dei tre gruppi che lavorano su tre aspetti: Supervisione, presieduto da Bank of China; Macrofinanza, presieduto da Bank of England; Finanza Green Mainstream, presieduto dalla tedesca Bundesbank.

COSA DEDURRE? Engdahl non ha dubbi. <I legami fra i maggiori gruppi finanziari del mondo, le banche centrali e le corporations globali e l’attuale spinta verso una radicale strategia climatica volta ad abbandonare i combustibili fossili in favore di una vaga e non spiegata Economia Verde, a quanto sembra, ha poco a che vedere con una preoccupazione genuina di rendere il pianeta pulito e l’ambiente salutare e vivibile. Appare piuttosto un’agenda intimamente collegata all’Agenda ONU 2030 per un’economia ‘sostenibile’, e per sviluppare letteralmente trilioni di dollari in nuova ricchezza per le banche globali e i giganti finanziari che costituiscono i reali poteri di oggi>.

<Non sbagliate – insiste più avanti – Quando le più influenti corporations multinazionali, i maggiori investitori istituzionali come BlackRock e Goldman Sachs, l’ONU, la Banca Mondiale, la Bank of England e altre banche centrali della Banca dei Regolamenti Internazionali si allineano dietro il finanziamento di una tale Agenda Verde, la chiamino Green New Deal o in altro modo, è tempo di guardare dietro la superficie delle campagne di attivisti e osservare la ‘vera agenda’. Il quadro che emerge è il tentativo di riorganizzazione finanziaria dell’economia mondiale, usando il clima – una cosa con cui il sole e la sua energia hanno ordini di grandezza più attinenti con l’umanità da sempre – per convincere noi, popolo qualunque a fare sacrifici non specificati per ‘salvare il nostro pianeta’>.

GLI OPPOSITORI. E’proprio così? Hanno ragione allora i grandi oppositori , i think tank libertari anti-stato, i mega industriali dell’energia fossile come Charles Koch e l ‘American Fuel e Petrochemical Manufactures, sostenitori di Trump, che fanno lobby per indebolire gli standard dei carburanti delle auto, una delle politiche climatiche di Obama, e per contrastare gli scienzati del clima, come raccontava il New York Times?

Ben altro e ben di più sostengono in realtà i pensatori della destra trumpiana. Come la Heritage Foundation, che arriva a parlare di Climate Change Industrial Complex – in analogia con il Military Industrial Complex – per irridere il catastrofismo del cambiamento climatico (che non si spinge al punto di negare) alimentato da scienziati (migliaia nel mondo, in realtà) che sarebbero pagati per alimentare un’imminene Apocalisse – andrebbero licenziati – e per denunciare la quantità di denaro pubblico speso in ricerca e in interventi pubblici che starebbero già costando ogni anno ai contribuenti americani il doppio del progetto Apollo, il tutto all’unico scopo di eliminare i combustibili fossili – mentre il clima peggiora. Da notare che la Heritage si guarda bene dal citare banche e finanza. Colpevole è lo Stato.

Posizioni riscontrabili fra i nostri “negazionisti“, commentatori italiani della destra leghista e non solo, che prendono in giro Greta e i giovani nelle piazze, mettendo talvolta in dubbio persino il cambiamento climatico.

Engdahl non sta certo da quella parte, per quanto lo si accusi di cospirazionismo. Sembra voler solo aprirci gli occhi.

Ma azzardiamo un’altra ipotesi, un po’ diversa: che cavalcando l’onda di reali preoccupazioni dei cittadini per il clima che muta, l’obiettivo di finanza e corporations sia rilanciare il sistema economico globale, che tanti economisti vedono languire e sull’orlo di nuove crisi (la stessa OCSE prevede una non-crescita globale nel 2020, con un arretramento di Cina e anche di USA e UE, poco meglio nel 2021). Rilanciarlo, ma perpetuando e anzi rafforzando e dilatando il proprio dominio sul mondo, anziché riformare il sistema rendendolo sia ecologicamente che socialmente sostenibile, diminuendo le disuguaglianze: obiettivo raggiungibile soltanto sottoponendo a nuove regole la finanza, come suggeriscono economisti liberal, poco ascoltati, come James K. Galbraith in The Unsustainability of Inequality, l’Ineguaglianza insostenibile (vedi anche Underblog).

Una proposta molto simile la avanza in Europa la Commissione Indipendente per l’Uguaglianza Sostenibile di cui sono copresidenti il danese P.Rasmussen e la greca L.Katseli, in un documento presentato a Bruxelles il 27 novembre 2018, redatto da una trentina di esperti europei di cui fanno parte Fabrizio Barca e Enrico Giovannini. Un’iniziativa promossa dall’Alleanza progressista dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo.

IL TRATTATO SUL CLIMA NON FUNZIONA. Lo denunciano intanto vari osservatori e ricercatori, in un articolo riportato dal sito inglese Truepublica.org.uk : <Tre nazioni su quattro che hanno firmato l’Accordo di Parigi nel 2015 per contenere il riscaldamento globale “ben sotto i 2° entro la fine del secolo hanno fallito nel promuovere impegni che dovrebbero ridurre le emissioni [di CO2] almeno del 40% entro il 2030>.

A Parigi nel 2015 un totale di 195 paesi hanno convenuto che quell’azione era vitale (link). Da allora solo 36 paesi hanno fatto qualche passo per raggiungere gli obiettivi sui quali concordavano, secondo un nuovo studio dell’Universal Ecological Fund (link). E una nazione ha annunciato che si ritirerà del tutto da quell’accordo (gli USA). “Finora gli impegni si sono rivelati troppo piccoli e troppo tardivi” sostiene uno degli esperti citati.

Il report Proceedings of the National Academy of Sciences (link) esamina l’impatto futuro nell’ipotesi che tutte le nazioni onorino gli impegni. Le conclusioni non sono confortanti. I ricercatori concordano che <le emissioni globali di gas serra da Parigi al 2030 sarebbero sufficienti per vedere innalzato il livello del mare di 20 cm>. Ma aggiungono un allarme peggiore a lungo termine.  Scrivono: <20 cm sono tanti, corrispondono all’aumento del livello del mare osservato nell’intero XX secolo. Provocarlo in soli 15 anni è sbalorditivo>. Non solo. Quello che si verifica oggi ha conseguenze che si prolungano nel tempo. <Secondo un nuovo studio americano-tedesco, se pure le nazioni onorassero i loro impegni entro il 2030, i livelli del mare del globo continuerebbero a salire e a restare più alti per migliaia di anni>. Consolante.

<Che l’Accordo di Parigi fosse sostenuto da impegni insufficienti a contenere un aumento della temperatura globale di 1.5° del resto era chiaro fin dall’inizio, gli scienziati avevano avvisato che se non fossero aumentati il riscaldamento sarebbe salito a lungo termine di 3°sopra la media>.

NUOVI ALLARMI. E la situazione peggiora. Con nuovi allarmi che derivano dallo scioglimento del Permafrost (lo strato di ghiaccio che ricopre le terre artiche, e non solo) finora sottostimato. L’articolo ne spiega le conseguenze. Poi prosegue:

<Cina e India si erano impegnate a ridurre le loro emissioni relativamente al loro PIL, ma poiché le loro economie continuano a crescere, anche le emissioni crescono>.

<La Cina è responsabile di oltre il 26% delle emissioni globali di gas serra, l’India del 7%, gli USA, che contribuiscono per il 13%, si ritireranno dall’Accordo di Parigi nel 2020 e hanno già annullato molte leggi sul clima. La Russia, responsabile per il 4.6% di tutto il CO2 non ha sottoscritto impegni. Le 28 nazioni UE e altre 7 – le più virtuose – hanno promesso riduzioni del 40% entro il 2040.

<Dei restanti 152 paesi, responsabili di oltre il 36%, 127 hanno sottoscritto piani ma hanno bisogno di assistenza tecnica e finanziamenti dalle nazioni ricche per metterli in pratica. Ma USA e Australia hanno stoppato ogni fondo>.

Circa il 70% delle emissioni derivano dai combustibili fossili, in particolare il carbone – che produce il doppio di CO2 del gas: un’azione di successo richiederebbe la chiusura di 2400 centrali elettriche che utilizzano il carbone. Nella realtà 250 nuove centrali a carbone sono oggi in costruzione, molte delle quali in Cina, dove il carbone è la prima fonte energetica – come in India e in misura minore in Polonia, Rep Ceca e persino in Germania. Quelle centrali andrebbero riconvertite, ma i costi sono alti. Solo gli USA lo hanno fatto, ma per puntare sullo shale gas e lo shale oil, altrettanto nocivi all’ambiente per il metano emesso e per altri motivi.

<Il messaggio è che i governi stanno facendo troppo poco, e troppo lentamente, innescando orribili future conseguenze>, conclude l’articolo.

E tuttavia, se l’attivismo interessato di banche, corporations e stati, al di là dei loro poco altruistici fini, portasse comunque a migliorare la situazione innescando una svolta, non sarebbe in ogni caso un passo avanti? Il condizionale è d’obbligo.

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Pompeo ad Atene: la Grecia sarà una Piccola Potenza Nato in funzione anti-Russia?

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L’Italia è stata solo un antipasto, per Mike Pompeo. Il piatto forte del suo viaggio oltre Atlantico è la Grecia, buona ultima dopo le tappe balcaniche in Montenegro e Nord Macedonia dove il tema era la Nato: il primo vi è appena entrato, la seconda vi si accinge . Ma è ad Atene che lo attendeva la trattativa più delicata e cruciale, peraltro già avviata.

Secondo un report esclusivo pubblicato sul sito Rizospastis.gr la settimana scorsa, nell’ambito di un Accordo di Mutua Cooperazione di Difesa Grecia USA- Greece-USA Mutual Defense Cooperation Agreement – i due paesi hanno concordato di espandere ed aumentare le installazioni militari americane nel Mediterraneo. Un progetto che segue il recente annuncio da parte dell’ambasciatore americano in Grecia Geoffrey Pyatt dell’intenzione degli US di “privatizzare” Alessandropoli, piccolo porto collocato in una posizione strategica, nella Macedonia greca al confine con la Turchia e in prossimità dello stretto di Dardanelli. Facendone in pratica una base Usa, primo passo verso una escalation geopolitica volta a creare un corridoio Nato greco-centrico.

Tutto questo viene raccontato da Paul Antonopoulos, direttore del Multipolarity Research Center, in due interessanti post di settembre sul non meno interessante infobrics.org, sito di analisi e notizie sui cinque paesi BRICS.

Gli Usa mirano insomma a tirare la Grecia, tradizionale rivale della Turchia, più decisamente dalla loro parte in una fase in cui Ankara continua a sfidare la Nato rafforzando i suoi rapporti con la Russia – vedi il recente acquisto degli S-400 – e ponendosi nel novero dei molti paesi della regione non ostili per non dire vicini all’Iran, a partire da Qatar e Pakistan, con cui la Turchia ha un accordo di cooperazione militare.

“Una nuova alleanza fra Qatar,Turchia e Iran con il potenziale appoggio di Russia e Cina rappresenta la maggior preoccupazione di USA, Israele e Arabia Saudita” scriveva il sito russo RT, ma sulla scorta di post di Middle East Eye e di AsiaTimes. Sulla stessa lunghezza d’onda l’americanissimo Antlantic Council : vedi Underblog del 19 luglio scorso.

Le relazioni fra Turchia e Stati Uniti per molti anni ottime negli ultimi anni si sono infatti sempre più deteriorate a causa della questione curda, come ammette un recente articolo di Foreign Affairs citato da Underblog. Ovvero a causa del supporto americano dato all’YPG, estensione siriana del PKK del Curdistan che Ankara, e ipocritamente gli Stessi US, considerano un’organizzazione terroristica. Ciò ha spinto la Turchia verso la Russia, il maggior avversario della Nato di cui pure Ankara continua a far parte. Per ora.

Al contrario la Grecia nei confronti della Nato è stata spesso poco obbediente, in particolare durante la guerra nella ex Jugoslavia . Antonopoulos entra nel merito e cita tutti i casi, che qui tralasciamo.

Non solo. La Grecia è l’unico paese europeo dove la Russia è ben vista dalla grande maggioranza della popolazione: il 63% secondo un sondaggio Pew. Al contrario della Turchia. Mosca negli anni scorsi non ha approfittato di tale favore da parte dei cittadini e degli apparati politici, militari e di intelligence, mediando per esempio nei crescenti contrasti fra Atene e Ankara. Come Antonopoulos nel primo post supponeva potesse fare di fronte alle profferte americane verso la Grecia. Un’occasione perduta.

La Turchia d’altra parte viola quotidianamente lo spazio aereo e marittimo greco; minaccia continuamente di invadere la metà di Cipro; Erdogan si è scagliato recentemente contro isole greche; ha rimosso dalla mappa online della regione l’isoletta di Kastellorizo per reclamare la sovranità della Turchia sulle riserve di petrolio e gas dell’area; e minaccia spesso di inondare la Grecia di profughi e migranti illegali.

Nei confronti della Turchia la Grecia può insomma dire di avere un problema di sicurezza, ignorato sia da Washington sia da Mosca. Ed è a questo problema che farà appello il governo di Kyriakos Mitsotakis, esponente della destra uscita vincitrice nelle ultime elezioni, disponibile ad aprire alle proposte di Washington alle quali il precedente governo Syriza aveva resistito.

Il Segretario alla Difesa americano Mark Esper ha da poco presentato al Congresso una lista di 127 progetti per espandere, rinnovare e costruire nuove infrastrutture militarie basi Usa all’estero, molte delle quali in Grecia.

Questo suggerisce che gli Stati Uniti stanno rafforzando la Grecia come mezzo per bloccare la Russia nel Mar Nero, dove Mosca possiede il suo unico porto libero da ghiacci – Sebastopoli, in Crimea – che non ha nessunissima intenzione di lasciare . Con il peggioramento dei rapporti fra US e Turchia, che controlla lo stretto che collega il Mar Nero al Mar Egeo/Mediterraneo, gli US ora puntano a coinvolgere la Grecia nel Piano B di contenimento della Russia nel Mar Nero, ce ne fosse mai bisogno.

La Grecia, oltre a una storica esperienza nella navigazione fra le miriadi di isole e isolette è seconda tra i paesi Nato nella spesa militare in rapporto al Pil, il che la rende già una Piccola Potenza nel Mediterraneo dell’Est e nella regione Balcanica. Ha infatti una forza aerea e navale formidabile, superiore a quella della Turchia e forse sufficiente a bloccare la Russia con l’assistenza Usa in una ipotetica situazione di necessità.

Malgrado la sua opinione pubblica favorevole nei confronti della Russia il governo greco non solo tollera i piani americani ma li incoraggia – scrive Antonopoulos. E nel suo storico sforzo di assicurarsi una sicurezza nei confronti delle minacce turche sta diventando anche una Piccola Potenza che può essere armata contro la Russia.

Tuttavia al momento non ci sono prove che il nuovo governo Greco sia anti-Russo, o che sarebbe disposto ad appoggiare una aggressione americana nei confronti di Mosca malgrado una maggiore presenza militare Usa in Grecia, che Atene vede in primo luogo in funzione anti Turchia. Mentre Washington guarda ovviamente anche alla Russia.

Di tutto ciò è presumibile che Pompeo abbia anche discusso, magari cautamente per ora, ad Atene.

http://infobrics.org/post/29373/ Will the US use Greece to block Russia in the Black Sea? 18/9

http://infobrics.org/post/29394/ Is Greece Becoming A Weaponized Anti-Russian Small Power? 27/9

https://www.state.gov/u-s-relations-with-greece/ Dipartimento di Stato sulle relazioni US-Grecia

https://www.reuters.com/article/us-usa-greece-pompeo-mitsotakis/greek-pm-asks-pompeo-for-us-help-to-calm-turkish-offshore-tensions-idUSKCN1WK04I

https://www.facebook.com/notes/underblog/perch%C3%A9-contro-liran-una-guerra-convenzionale-trump-non-la-pu%C3%B2-lanciare/2286277178108324/ Underblog citato, 19/7

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Perché contro l’Iran una guerra convenzionale Trump non la può lanciare (ma continua a pattugliare il Golfo)

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22 giugno2019. Il presidente Trump in uno dei suoi tweet si vanta di aver sventato all’ultimo momento un attacco contro tre obiettivi iraniani, come rappresaglia al drone abbattuto da Theeran, e i misteriosi attacchi a due petroliere straniere nel Golfo Persico, che gli US avevano imputato all’Iran. Il mondo tira un sospiro di sollievo, un conflitto sembrava imminente. Molte compagnie aeree avevano già dato ordine di non volare sui cieli del Golfo. Su Twitter i bene informati sostengono che sia stato lo stesso Pentagono a bloccare iniziative belliciste inopportune. Sostenute dai falchi dell’amministrazione? Non è dato sapere. La verità è che una guerra convenzionale nei confronti dell’Iran gli Usa non se la potrebbero permettere. Questa almeno è la tesi di una lunga dettagliata analisi del prof Michel Chossudovsky su Global Research, il centro canadese di ricerche da lui fondato molti anni fa. Il professore è assai ostile agli US, ma sempre documentato.

“Nelle condizioni attuali un intervento come quello in Iraq che comporti forze di terra, d’aria e navali sarebbe impossibile in Iran – è la sintesi . Per diverse ragioni. L’egemonia degli Stati Uniti nel Medio Oriente si è estremamente indebolita, in conseguenza dell’evolversi della struttura delle alleanze militari. Gli US non sarebbero in grado di portare avanti un tale progetto”.

I temi di fondo sono due, ma è il secondo ad essere approfondito.

Le forze militari dell’Iran, ovvero la sua capacità (forze di terra, navali, aeree, di difesa) di resistere e rispondere. Le sue forze di terra, navali, aeree sono consistenti, ha un’industria bellica e sta per ricevere il potente sistema missilistico russo di difesa S-400. Con 534.000 persone attive tra esercito, marina e aeronautica e il corpo speciale delle Guardie Islamiche Rivoluzionarie (IRGC) è considerato la ‘maggior potenza militare’ del Medio Oriente. In caso di attacco potrebbe colpire i siti militari US nel Golfo Persico.

L’evolversi della struttura delle alleanze militari (2003-2019, largamente a detrimento degli Stati Uniti. E’ il punto decisivo, su quale di solito poco si riflette. Diversi alleati tra i più fedeli ‘dormono con il nemico’.Paesi che confinano con l’Iran come il Pakistan e la Turchia hanno accordi di cooperazione militare con l’Iran. Ciò in sé esclude la possibilità di una guerra di terra, ma influenza la capacità di US e alleati di pianificare operazioni navali e aeree. Eppure fino a tempi recenti entrambe – la Turchia è un membro NATO di peso – erano tra i più fedeli alleati dell’America, di cui ospitano basi militari importanti.

Da un più vasto punto di vista militare, la Turchia coopera attivamente sia con l’Iran che con la Russia. Di più. Ankara ha appena acquisito il sistema di difesa missilistico S-400, stato dell’arte della Russia, ponendosi di fatto fuori dal sistema di difesa aereo integrato US-Nato-Israele. Tra luglio e agosto operatori del sistema verranno addestrati in Russia. Inoltre, in Siria US e Turchia combattono su fronti opposti. Secondo un recente articolo di Foreign Affairs – aggiungiamo – la questione curda è stata la prima causa della rottura fra i due paesi e dell’avvicinamento di Ankara alla Russia.

Non c’è bisogno di sottolineare che il Trattato di Organizzazione Nord Atlantica è in crisi. Lo stesso Chossudowsky approfondisce la questione in un successivo post del 13/ 7, arrivando a chiedersi se l’uscita della Turchia dalla Nato non sia imminente.Anche l’Iraq ha indicato che non collaborerà con gli US in caso di guerra contro l’Iran. Ancor più significativo il fatto che nessuno degli stati vicini all’Iran, dai suddetti Turchia e Pakistan ad Afghanistan, Iraq, Turkmenistan, Azerbaijan e Armenia consentirebbe a forze di terra americane e alleate di transitare sul loro territorio. Né coopererebbero con gli US in una guerra aerea.

L’Azerbajan, che durante la guerra fredda era un alleato degli US nonché membro della ‘partnership for peace’ della Nato, ha cambiato fronte. E lo scorso dicembre ha firmato un accordo di collaborazione militare e di intelligence con l’Iran, che a sua volta collabora anche con il Turkmenistan. L’alleanza post sovietica GUAM (Georgia, Ucraina, Azerbajan, Moldavia) è virtualmente defunta.Quanto all’Afghanistan, con i Taliban che controllano la maggior parte del territorio, la situazione non favorisce certo un dispiegamento di forze di terra americane/alleate al confine con l’Iran.

In conclusione, la politica di aggiramento strategico nei confronti dell’Iran formulata alla vigila della guerra con l’Iraq (2003) non funziona più. L’Iran ha relazioni amichevoli con i paesi vicini un tempo sotto l’influenza americana.

In queste condizioni lanciare una guerra convenzionale di teatro con truppe di terra sarebbe un suicidio, conclude il nostro. Aggiungendo tuttavia che ciò non significa che una qualche forma di intervento diretto contro l’Iran non sia possibile. E non sia nei piani del Pentagono. Chossudovsky ne fa un elenco:

*varie forme di ‘guerra limitata’, es attacchi missilistici;*sostegno a gruppi terroristi paramilitari da parte di US/alleati;*cosiddette ‘bloody nose operations’, vale a dire forme di intervento preventivo, già prese seriamente in considerazione verso la Corea del Nord nel 2018;*destabilizzazione politica, ‘rivoluzioni colorate’;*attacchi false flag e minacce unilaterali;*guerra alettromagnetica e/o climatica (ENMOD);*cyberwarfare;*attacchi chimici o biologici;*sabotaggi, confische di asset finanziari, sanzioni economiche massicce.

[Queste ultime sono quelle che Trump ha già attuato e ha ulteriormente minacciato di estendere recentemente, dopo l’annuncio di Teheran di una ripresa dell’arricchimento dell’uranio motivato dal blocco economico che ha colpito l’Iran dopo l’abbandono da parte degli US di Trump dell’accordo del 2015].

I quartier generali dell’US Central Command situati in territori diventati nemici. E’ la considerazione forse più grave nell’evoluzione della struttura militare americana. L’USCENTCOM è il Comando combattente a livello di teatro per tutte le operazioni nella più vasta regione del Medio Oriente, dall’Afghanistan al Nord Africa. E’il più importante Combat Command della struttura Unified Command. Ha condotto e coordinato i maggiori teatri di guerra in Medio Oriente dall’Afghanistan (2001) all’Iraq (2003) ed è anche convolto in Siria.In caso di guerra all’Iran le operazioni in M. O. sarebbero coordinate dal US Central Command nel quartier generale di Tampa, Florida in collegamento permanente con il quartier generale dell’CENTCOM, che si trova in Qatar.

Il punto chiave è questo.Dopo l’abbattimento del drone da parte di Teheran, a fine giugno scorso, quando Trump annunciò di aver bloccato l’imminente attacco all’Iran il CENTCOM confermò il dispiegamento degli F-22 stealth nella base di Al-Udeid, in Qatar ”in difesa delle forze e degli interessi americani” Ne ha parlato Michel Welch, sullo stesso Global Research il 30/6/2019).“La base è tecnicamente proprietà del Qatar e ospita i quartier generali dell’US Central Command. Con 11.000 militari americani, viene descritta come ‘una delle basi più durature e strategicamente posizionata del pianeta’ (Washington Times). Ospita l’US Air Force’s 379th Air Expeditionary Wing, considerata ‘il più vitale commando aereo dell’America all’estero’ “.

Quello che i media e gli analisti militari dimenticano di far sapere – sottolinea Chossudovsky – è che il quartier generale avanzato per il Medio Oriente dell’US CENTCOM presso la base militare di al-Udeid vicino a Doha di fatto “si trova in territorio nemico”. Come si è arrivati a tanto?

Il progetto di Trump era dar vita a una Middle East Strategic Alliance (MESA), una sorta di ‘NATO Araba’ sotto la supervisione saudita, che avrebbe compreso Egitto e Giordania insieme ai membri del Gulf Cooperation Counci [l’alleanza fra i paesi del Golfo – Arabia Saudita, UAE, Qatar, Bahrein, Kuwait, Oman – che data dal 1981 ma fra vari disaccordi non è riuscita a crescere a più livelli come si proponeva].La dichiarazione di Riyad, il 21 maggio 2017, alla fine dello storico summit con Trump nella capitale saudita, annunciava la costituzione della MESA – senza il Qatar, ma mantenendo intatto il GCC – per contrastare l’egemonia dell’Iran.

Due giorni dopo, scatta un embargo verso il Qatar.L’Arabia Saudita blocca il suo confine terrestre col Qatar, accusato di sostenere il terrorismo e di collaborare con Theheran. E insieme a Emirati (UAE) e Bahrein dà vita a un embargo aereo e navale verso Doha.

E però il Qatar, apparentemente isolato, trova subito nuovi amici nella Turchia e nell’Oman, il sultanato che insieme all’Iran controlla lo stretto di Hormutz. Turchia, Iran e Pakistan [che è alleato della Cina] accrescono i commerci col paese, grazie ad accordi bilaterali. Ankara stabilisce anche una presenza militare in Qatar, ricevendo in cambio investimenti per $20 miliardi [il Qatar non lesina denari agli amici]. “Oggi il paese brulica di uomini d’affari iraniani, personale ed esperti dell’industria petrolifera, per non menzionare la presenza di russi e cinesi, scrive Chossudovski.

Da quel maggio 2107 il Qatar diventa un convinto alleato sia dell’Iran che della Turchia – che è anche alleata dell’Iran ed è sempre più vicina alla Russia – pur non avendo nessun accordo militare ‘ufficiale’ con Teheran. Notare che Qatar e Iran condividono la proprietà del giacimento marittimo di gas naturale più grande al mondo.E Russia, Iran e Qatar messi insieme possiedono oltre la metà delle riserve di gas conosciute.

[Lo ricordava fra l’altro una approfondita analisi sul sito russo RT.com del marzo scorso che, sulla scorta di interessanti recenti post di Asia Times e Middle East Eye esordiva: “Una nuova alleanza fra Qatar ,Turchia e Iran con il potenziale appoggio di Russia e Cina rappresenta la maggior preoccupazione di USA, Israele e Arabia Saudita . La conseguenza di otto anni di guerra in Siria hanno modificato le dinamiche regionali in un modo certamente mai immaginato dagli Stati Uniti e dai loro alleati”].

Interpretazione Russa? Affatto. Che il Qatar sia ormai un solido alleato di Iran e Turchia, lo conferma l’Atlantic Council, think tank vicino a Pentagono e Nato. Chossudovsky ne cita anche alcune frasi:“ Il 15 giugno il presidente Rouhani ha sottolineato che rafforzare i rapporti con il Qatar è un’alta priorità per i politici iraniani. All’Emiro qatariota ha detto che ‘stabilità e sicurezza nei paesi della regione sono interconnesse’. In cambio il capo di stato del Qatar ha affermato che Doha mira a una stretta alleanza con la Repubblica Islamica’” . L’evoluzione politica e militare della Turchia preoccupa molto l’occidente, come abbiamo visto sopra citando Foreign Affaris, la rivista del Council of Foreign Relations che lega l’allontanamento dagli US al problema dei Curdi.

Ma è tutta la strategia americana in Medio Oriente ad essere in crisi, come emerge dal nuovo viaggio di Trump a Riyad lo scorso aprile 2019. Ai Sauditi, pur indeboliti dall’affair Kashoggi, viene affidato il rilancio della MESA formulata nel 2017, a dispetto del fatto che tre membri del GCC – Qatar ma anche Kuwait e Oman sono ormai impegnati nel normalizzare i rapporti con l’Iran. In più l’Egitto del presidente al-Sisi decide di sfilarsi dalla proposta di una Nato Araba obiettando che “creerebbe tensioni con l’Iran”.

Insomma, se l’obiettivo US era creare un ‘blocco Arabo’ in funzione anti-Iran, il risultato è una tacita spaccatura dello stesso GCC e la creazione dell’asse Iran Turchia Qatar di cui sopra, con Ankara alleata dell’Iran e sempre più vicina alla Russia e il Pakistan, alleato della Cina, diventato il maggior partner del Qatar. L’Oman neutrale come pure il Kuwait, che non è più allineato all’Arabia Saudita, pur mantenendo buoni rapporti con Washington, di cui ospita facilities militari. Trump ha finito per ritrovarsi con una ‘mezza MESA’ con Arabia Saudita, Bahrein e Giordania. Senza nemmeno l’Egitto, con Kuwait e Oman neutrali, e il Qatar in braccio al nemico.Secondo Chossudowsky il progetto della Nato Araba con supervisione Saudita contro l’Iran appare insomma definitivamente saltato, e la prospettiva di un intervento militare in Iran, impossibile.

Il tutto sembra avvenire molto sotto traccia. Il Pentagono ha in apparenza deciso di mantenere ufficialmente il quartier generale dell’US Central Command in Qatar, ma avrebbe intenzione ricollocare parte degli aerei, personale, e funzione di comando altrove. In Arabia Saudita? Probabilmente. Non è chiaro chi abbia ordinato l’embargo al Qatar, conclude Chossudowsky: a suo parere i Sauditi non l’avrebbero fatto senza l’avvallo di Washington.

Gli US poliziotti del Golfo, ma sempre più soli. E’ un altro capitolo, che aggiungiamo. L’egemonia US nella regione come si è visto risulta assai indebolita.In questa situazione anche il transito delle navi da guerra verso il quartier generale della V Flotta in Bahrein è potenzialmente minacciato. Per non dire delle operazioni navali nel Golfo. Lo stretto di Hormutz, ingresso nel Golfo Persico, è sotto il controllo del nemico Iran e del neutrale Sultanato di Oman.Trump appare isolato anche nella funzione di ‘vigilanza’ del traffico del petrolio dal Golfo Persico .

L’11 luglio scorso gli “US hanno annunciato che continueranno a vigilare, malgrado le proteste di Trump”. Così titolava il Financial Times. Proteste? Dopo i misteriosi attacchi alle due navi cisterna, una giapponese e una norvegese, attribuiti dagli US all’Iran (che ha recisamente negato), il presidente aveva chiesto agli alleati e ai paesi importatori di petrolio asiatici di contribuire alla sicurezza di una rotta cruciale per il greggio globale: un quinto del petrolio del mondo passa infatti dallo stretto di Hormutz.In un tweet Trump ha criticato Cina e Giappone e “molti altri paesi” per non contribuire abbastanza alla sicurezza delle forniture di petrolio.

Un appello che riecheggia quello da parte di presidente degli Stati maggiori US Joseph Dunford rivolto esplicitamente agli alleati Nato. Ma i paesi asiatici appaiono riluttanti a prendere una posizione ostile all’Iran, scriveva il FT, citando un professore di Harvard di turno, per il quale India, Corea del Sud e Giappone hanno meno probabilità di unirsi agli US di Sauditi, Emirati ed europei. Ma anche questi nicchiano. Gli europei avranno riserve ad aderire ufficialmente a una coalizione marittima US dopo che Trump si è ritirato dall’accordo nucleare con Theheran .

L’unico alleato collaborativo – aggiungiamo – è l’UK, che l’anno scorso ha aperto una base in Bahrein e ha navi che pattugliano lo stretto. E’ stato l’unico paese a spalleggiare gli US nelle accuse all’Iran alle petroliere e sostiene addirittura di aver respinto un tentativo iraniano di impedire il passaggio di una petroliera BP (per rappresaglia dopo il blocco inglese di una nave iraniana a Gibilterra, racconta un post di gulfnews.comdedicato al nuovo mistero di una petroliera scomparsa, aggiungendo che dopo le minacce iraniane a petroliere britanniche gli US prevede scorte navali.

D’altra parte gli US non possono rinunciare a fare i poliziotti del Golfo dove passa un quinto del traffico mondiale di petrolio. Il perché lo spiega un’analisi molto interessante su TomDispatch.com di Michael T. Klare, collaboratore abituale del sito, professore emerito dell’università dell’Hampshire, autore di vari testi. Al cuore dei conflitti in medio Oriente, inclusa la crisi con l’Iran– è la sua tesi – ci sono tre semplici lettere: oil, ovvero c’è da sempre il petrolio.

Il punto è politico. Per quanto gli US non dipendano più se non in minima parte dalle importazioni di petrolio, da quando il fracking assicura loro il 75% del fabbisogno (nel 2008 era il 35%), alleati chiave della Nato e rivali come la Cina tuttora continuano a dipendere dall’oil del Medio Oriente. E l’economia, mondiale, di cui l’America è la prima beneficiaria, è legata al flusso petrolifero ininterrotto dal Golfo persico, per tenere basso il prezzo.

Nonostante le accuse ai combustibili fossili di contribuire al cambiamento climatico, secondo l’ultimo report di BP il petrolio nel 2018 ha rappresentato ancora il 33,6% del consumo globale di energia, seguito dal 27.2% dal carbone, 23,9% del gas naturale, 6,8 energia idroelettrica, 4,4% nucleare e un misero 4% di rinnovabili.E il consumo di petrolio è previsto in salita. Due terzi del petrolio vengono ancora oggi consumati dai paesi industrializzati, ma nel 2040 secondo l’IEA le proporzioni sono destinate a ribaltarsi a vantaggio dei paesi emergenti non OCSE. La quota della regione Asia-Pacifico al 28% nel 2000, si prevede salirà al 44% grazie alla crescita di Cina, India e altri paesi asiatici.Da dove prenderanno il petrolio necessario? Gli esperti non hanno dubbi: si rivolgeranno all’unico luogo capace di soddisfare la loro richiesta. :il Golfo Persico.

Ci fermiamo qui. Ma è evidente che il controllo di questo traffico è strategicamente cruciale. Rinunciarvi per gli US significherebbe abdicare al loro ruolo egemonico, sia pure declinante.

Aggiunta interessante.La reazione all’indebolimento degli US in Medio Oriente, cominciata in Siria dove il regime change è clamorosamente fallito, passa per un piano di contenimento della Turchia da parte di Arabia, Emirati più Israele e Egitto che paradossalmente prevede fra l’altro una riabilitazione di al Assad in Siria (dove gli Emirati hanno appena riaperto l’ambasciata) , che verrebbe fatto entrare nella Lega Araba . Ma in cambio l’Egitto pretende che la Siria consideri nemici Turchia, Qatar e Fratellanza Musulmana. Guarda a caso sono gli stessi due fronti che in Libia sostengono da una parte il generale Haftar, dall’altra al Serraj. Per dire quanto sono intrecciati i fronti.A rivelare il piano è stato un report esclusivo di Middle East Eye che racconta un summit al quale ha partecipato il Mossad. Ci torneremo.

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2019/06/21/iran-da-trump-ok-attacchi-poi-lo-stop_ca67290f-4f36-4ada-a7f4-8a434b1acb5b.html

https://www.globalresearch.ca/a-major-conventional-war-against-iran-is-an-impossibility-crisis-within-the-us-command-structure/5682514 Prof Michel Chossudovsky , 8/7/ 2019

https://www.globalresearch.ca/shifting-alliances-is-turkey-now-officially-an-ally-of-russia-acquires-russias-s-400-exit-from-nato-imminent/5683458 stesso autore, 13/7

https://www.ft.com/content/22481dd8-a302-11e9-974c-ad1c6ab5efd1 11/7US will keep policing the Gulf despite Trump protests |President’s call for help in Hormuz Strait likely to be ignored by Asian countries.

https://af.reuters.com/article/worldNews/idAFKCN1U5118 10/7 Trump threatens to ‘substantially’ increase sanctions on Iran – Reuters

https://www.foreignaffairs.com/articles/turkey/2019-07-09/why-turkey-turned-its-back-united-states-and-embraced-russia Why Turkey turned its back on the Us and embraced Russia

http://www.tomdispatch.com/post/176584/tomgram%3A_michael_klare%2C_it%27s_always_the_oil/#moreThe Missing Three-Letter Word in the Iran Crisis. Oil’s Enduring Sway in U.S. Policy in the Middle East . By Michael T. Klare

https://www.rt.com/op-ed/454512-alliance-iran-qatar-turkey-saudi/ New Turkey-Iran-Qatar axis is rising in Middle East, and it has Saudi Arabia furious 22/3/19

https://cms.ati.ms/2018/01/americas-syrian-humiliation-worse-looks/ 26/1/2018

https://www.middleeasteye.net/news/revealed-how-gulf-states-hatched-plan-israel-rehabilitate-assad gennaio 2019

https://www.lettera43.it/petroliera-emirati-arabi-iran/ 17 lugliohttps://gulfnews.com/opinion/editorials/the-mystery-of-the-missing-tanker-1.65275294

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