Donald, Bibi and Soleimani 2). Secondo Haaretz.

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Trump voleva riprendere negoziati con Teheran. E Israele si sentiva tradita e minacciava di fare da sola. E’, in estrema sintesi, quanto emerge con chiarezza da svariati articoli pubblicati da Haaretz, quotidiano israeliano abbastanza liberal. Articoli di metà dicembre che ho ritrovato in una email di segnalazioni da parte del giornale che avevo trascurato. Le considerazioni di Underblog su Donald, Bibi e Soleimani nell’ultimo post non erano poi così ingenue. Anzi. E stupisce che i vari giornalisti e commentatori dei giorni scorsi abbiano ignorato il tema.

Gli articoli di Haaretz, news, analisi, opinioni, parlano da soli. Ci limitiamo a riproporne titoli (in maiuscolo), occhielli e prime righe (in corsivo), con traduzione sottostante e i dovuti link (nelle date). Purtroppo la lettura completa è riservata ai soliti abbonati, ma quanto emerge pare sufficiente e significativo.

15 dicembre, News :

ISRAEL WATCHES WARILY AS TRUMP AGAIN TALKS ABOUT IRAN NEGOTIATIONS – Iran threatens destruction, Israel invokes Vietnam – and one Mideast country fears getting caught in the middle .

U.S. President Donald Trump this week brought back into discussion an idea that had almost completely disappeared in recent months: negotiations with Iran…

Traduzione: ISRAELE OSSERVA CAUTAMENTE TRUMP CHE NUOVAMENTE PARLA DI NEGOZIATI CON L’IRAN – L’Iran minaccia distruzione, Israele invoca il Vietnam – e un paese del Medio Oriente teme di essere preso nel mezzo. [a quale paese allude? Forse l’Irak ]

Il presidente US Donald Trump questa settimana è tornato indietro nel discutere un’idea completamente scomparsa nei mesi recenti: negoziati con l’Iran…

16 dicembre, Analisi:

TRUMP IS ACTUALLY UNDERMINING AMERICA’S RELATIONSHIP WITH ISRAEL – Despite offering a veneer of commitment to Israel, the White House is shaping an environment that is less stable and less safe for the Jewish state .

The modern State of Israel was born in the aftermath of World War II, alongside what is now known as the rules-based international order, a liberal global system created in large part by the United States and…

Traduzione: TRUMP STA OGGI MINACCIANDO LE RELAZIONI DELL’AMERICA CON ISRAELE. – A dispetto dell’apparente impegno verso Israele, la Casa Bianca sta dando forma a un ambiente meno stabile e meno sicuro per lo stato Ebraico.

Il moderno stato di Israele nacque dopo la Seconda Guerra Mondiale, seguendo quello che oggi è conosciuto come un ordine internazionale basato su regole, un sistema globale liberale creato in larga parte dagli Stati Uniti e …

16 dicembre, Opinione:

ISRAELIS LOVE TRUMP. THEY ARE NOT THE FIRST TO FALL FOR HIS FALSE PROMISES.

If he’s re-elected, Trump won’t need to appease eagerly pro-Israel evangelicals anymore. He’ll able to indulge his natural inclinations, which might not be quite as friendly toward the Jewish state

U.S. President Donald Trump enjoys support from more than two thirds of Israelis a level of approval he could only hope for among Americans…

Traduzione: GLI ISRAELIANI AMANO TRUMP. NON SONO I PRIMI A CASCARE PER LE SUE FALSE PROMESSE. [GLI ISRAELIANI DOVREBBERO ESSERE MOLTO PIU’ SCETTICI SU TRUMP, si legge nel link] – Se sarà rieletto, Trump non avrà più bisogno di ingraziarsi entusiasticamente gli Evangelici pro Israele. Sarà in grado di seguire le proprie inclinazioni, che potrebbero non essere così amichevoli

Il presidente US Donald Trump gode del sostegno di più di due terzi degli Israeliani, un livello di approvazione che  fra gli Americani può soltanto sperare…

17 dicembre , News:

HOW TRUMP AND NETANYAHU SPLIT WAYS ON IRAN PUSHING ISRAEL TO ACT ALONE.- Though many on the pro-settler right still think Trump is a divine miracle, senior Israeli officials have come to the disquieting realization that, in its hour of need, Israel can’t rely on the president

In very few countries have hopes regarding the Trump administration s foreign policy been as evident as in Israel. And now, the increasing disappointment with Donald Trump is hardly ever expressed publicly by…

Traduzione:

COME TRUMP E NETANYAHU DIVIDONO LE LORO STRADE SULL’IRAN, SPINGENDO ISRAELE AD AGIRE DA SOLA – Sebbene in molti, sul diritto a favore degli insediamenti, ancora pensino che Trump rappresenti un miracolo divino, alti funzionari Israeliani sono arrivati all’inquietante conclusione che, nell’ora del bisogno, Israele non può fare affidamento sul presidente.

In molti pochi paesi le speranze riguardo alla politica estera dell’amministrazione Trump sono state così evidenti come in Israele. E ora, la crescente delusione nei confronti di Donald Trump viene espressa pubblicamente a fatica da ….

18 dicembre, Analisi:

IF ISRAEL HAS TO MANAGE WITHOUT HIS STRATEGIC PARTNER IT WILL STILL SURVIVE – As the Israeli economy has grown, the need for American assistance has decreased and the actual costs for Israel of a dependency on American arms are becoming more evident

The grandiose opening ceremonies of the Olympic Games often serve as a useful venue for informal meetings between world leaders. The Beijing Olympics in August 2008 was no exception. Vladimir Putin (at the…

Traduzione:

SE ISRAELE DEVE GESTIRSI SENZA IL SUO PARTNER STRATEGICO, SOPRAVVIVERA’ LO STESSO – Dal momento che l’economia Israeliana è cresciuta, la necessità di un’assistenza Americana è diminuita e per Israele i costi attuali di una dipendenza dalle armi Americane stanno diventando più evidenti.

Le grandiose cerimonie di apertura dei Giochi Olimpici spesso servono da utili convegni per incontri informali fra i leader del mondo. Le Olimpiadi di Pechino nell’Agosto 2008 non hanno fatto eccezione. Vladimir Putin (al … [peccato qui non leggere il seguito].

Per completezza aggiungiamo un articolo (Opinione) che Haaretz aveva pubblicato l’8 dicembre, per quanto ci sembri allusivo ed enigmatico, specie alla luce dei successivi. La traduzione ne risente.

THE ONE MOVE TRUMP SHOULD MAKE TO ACTUALLY DEFEND ISRAEL – Israel’s defense establishment has always been cool to the idea of a defense treaty with America. But a formal pact is now urgent – and strategically vital

Between salvos of Hamas rockets, Netanyahu shenanigans and Trump s antics, you may have missed the really big news, an issue which will have lasting effects on the U.S.- Israel relationship: are the two states…

Traduzione:

L’UNICA MOSSA CHE TRUMP DOVREBBE FARE PER DIFENDERE DAVVERO ISRAELE – . L’establishment della Difesa di Israele è sempre stato freddo sull’idea di un trattato di difesa con l’America. Ma un patto formale è oggi urgente – e strategicamente vitale.

Tra i fuochi dei razzi di Hamas, i trucchi (o imbrogli, forse relativi alle accuse di corruzione) di Netanyahu e le buffonate di Trump, potreste aver perso la notizia davvero importante, un tema che avrà effetti duraturi sulle relazioni fra US e Israele: due stati sono…

Infine, alcuni articoli pubblicati DOPO il raid di cui Trump si assunto la sola paternità.

5 gennaio, News:

AS QASSEM SOLEIMANI’S MEGALOMANIA GREW; HE BECAME LESS GROUNDED IN REALITY – The late commander of the Iranian Revolutionary Guards’ Quds force believed he was capable of creating a Shi’ite empire in the Middle East .

Qassem Soleimani, the commander of the Iranian Revolutionary Guards’ Quds force, who was killed Friday in Baghdad in an American operation, earned respect for his courage and his close ties to Iran’s supreme leader, Ali Khamenei. He commanded some 15,000 men, a relatively small component of the Revolutionary Guards, and was actually subordinate to the Revolutionary Guards commander, Gen. Hossein Salami. But in practice, he was his country’s No. 1 general, because Khamenei treated him as his adopted son and appointed him his special adviser… [articolo disponibile a tutti]

Traduzione:

Col CRESCERE DELLA SUA MEGALOMANIA, QASSEM SOLEIMANI E’ DIVENTATO MENO ANCORATO ALLA REALTA’- Il comadante delle forze Quds delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane credeva di essere capace di creare un impero Sciita nel Medio Oriente.

Qassem Soleimani, il comandante delle forse Quds delle Guardie Rivoluzionarie Iraniane, ucciso Venerdì a Bagdad in un’operazione Americana, si era conquistato rispetto per il suo coraggio e il suo stretto legame con il supremo leader dell’Iran, Ali Khamenei. Comandava 15.000 uomini, una componente relativamente piccola delle Guardie Rivoluzionarie, ed era in realtà sottoposto al comandante delle Guardie Rivoluzionarie, Gen. Hossein Salami. Ma in pratica era il N1 del  suo paese, perché come Khamenei lo trattava come un figlio adottivo e lo aveva nominato suo consigliere speciale.

5 gennaio, Analisi:

TRUMP EXPLOITED SOLEIMANI’S MISTAKE, AND NETANYAHU GAINS THE MOST – Like his predecessors over the last half-century, from Nixon to Obama, Trump discovered that the Middle East imposes itself on American foreign policy even when it is no longer dependent on oil from the region

U.S. President Donald Trump wanted to avoid getting entangled in another war in the Middle East after the American failure in Iraq and the 18-year war in Afghanistan. He knew that American public opinion…

Traduzione:

TRUMP HA SFRUTTATO L’ERRORE DI SOLEIMANI, E A GUADAGNARCI DI PIU’ E’ NETANYAHU – Come i suoi predecessori nell’ultima metà del secolo, da Nixon a Obama, Trump ha scoperto che il Medio Oriente si impone sulla politica estera americana anche quando non dipende più dal petrolio della regione.

Il presidente US Donald Trump voleva evitare di restare impigliato in un’altra guerra in Medio Oriente dopo il fallimento americano in Irak e i 18 anni di guerra in Afganistan. Sapeva che l’opinione pubblica americana….

5-6 gennaio, un’Opinione di segno opposto:

TRUMP’S IMPULSIVE SOLEIMANI STRIKE HARMS U.S INTERESTS, AND BENEFIT IRAN – The abruptness of Trump’s decision to target Qassem Soleimani – who deserved his fate – is a burden for Israel and another blow to U.S. strategy in Iraq and Syria, if not the wider Middle East

Traduzione:

L’IMPULSIVO ATTACCO DI TRUMP A SOLEIMANI DANNEGGIA GLI INTERESSI US E BENEFICIA L’IRAN – L’improvvisa decisione di Trump di prendere di mira Soleimani – che si è meritato tale sorte – è un peso per Israele e un altro colpo alla strategia US in Irak e in Siria, se non nell’intero Medio Oriente.

Non è dello stesso parere Daniel Pipes, esponente dei neocon americani ed ex consigliere di George Bush jr. Intervistato su La Stampa del 5 gennaio dichiarava: < L’uccisione di Qassem Soleimani rappresenterà un punto di svolta solo se sarà l’inizio di una nuova strategia più dura sul piano militare che indebolisca l’apparato delle forze di sicurezza iraniane aiutando i cittadini che vogliono provocare la caduta degli ayatollah dall’interno>.

Un punto di vista non proprio rassicurante.

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Considerazioni (ingenue?) su Donald, Bibi e Soleimani

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Nei molti commenti seguiti all’uccisione di Soleimani si cita poco o niente Israele, che pure è un player importante se non decisivo nella regione medio orientale.

Bibi (Nethanyhau) si è subito congratulato con Donald (Trump) per l’azione riuscita. A ragione, dal suo punto di vista. Del resto, come è noto, fra i due i legami sono saldissimi, sia diretti, sia via la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner e via i falchi neoconservatori, l’ala più guerrafondaia e filo Israele dei Repubblicani.

Pur non considerando l’antico progetto del Grande Israele, non sappiamo se messo o no definitivamente da parte, non è un mistero che Israele sia da sempre preoccupato – ossessionato forse – per la sua “Sicurezza” e ostile a chiunque non condivida tale incubo, o fissazione.

Sicurezza che include ovviamente il controllo assoluto ed esclusivo dei territori già assegnati ai Palestinesi –di quel che ne resta (sempre meno). Ma comprende anche una ferma volontà di impedire a qualunque paese di farsi egemone, e una sorta di “supervisione” dei paesi confinanti e vicini: dal Libano all’Irak, alla Siria, meglio se spezzati in staterelli minori, magari su base etnica.

Un’aspirazione non certo estranea agli interventi in quei paesi promossi dagli americani dopo l’11 settembre, spartiacque di una politica aggressiva sponsorizzata dai neocon, autori del PNAC, il Project for a New American Century. Oltre alle motivazioni strategiche legate agli interessi energetici nella regione (oleodotti e gasdotti) pur meno rilevanti oggi dopo l’autonomia energetica americana ottenuta dal fracking, e dai giacimenti in acque israeliane (e Palestinesi? Giammai).

L’Iran, o Persia, è un’altra cosa. Paese di antica cultura, 90 milioni di abitanti, non arabo, grandi giacimenti di petrolio e gas naturale, non si piega facilmente. E’ ostile all’America almeno dal tempo dell’”operazione Aiax”, il golpe con cui UK e USA nel 1953 buttarono giù il governo democratico di Mossadeq installandovi lo Scia’ Reza Palhavi, poi detronizzato dalla rivoluzione del 1979 che portò l’ayatollah Komeini al potere, e alla crisi diplomatica  con gli Usa, umiliati dalla presa in ostaggio di 54 americani nell’ambasciata presa d’assalto e dal fallimento Usa della missione per liberarli, un anno dopo. Un sgarbo mai digerito del tutto.

Da allora l’Iran ha sempre appoggiato i Palestinesi e contrastato i piani americani e israeliani nella regione, diventando per Israele il Nemico per eccellenza. Accumunati in questo sentiment dall’Arabia Saudita, da sempre vicina a UK, USA e sotto traccia a Israele, nonché rivale dell’Iran da cui la divide anche la religione: sunnita wahabita (estremista musulmana) in Arabia, sciita in Iran. Una differenza religiosa su cui i media hanno insistito anche troppo., tralasciando il resto.

Che l’Iran, anche per ragioni interne, aiuti le forze che nella regione si oppongono a Israele e USA  non è un mistero. In Palestina vicini ad Hamas, in Libano a Hezbollah, in Irak agli sciiti (il 60% della popolazione) e ostili alla presenza militare americana, rimasta nel paese. Per non dire della Siria, dove l’arrivo dei Russi, chiesto dallo stesso Soleimani – e avallato dagli USA – per contrastare l’ISIS, ha finito per mantenere saldamente in sella l’amico Assad che americani e israeliani contavano di spodestare.

Tutto ciò ha rafforzato Teheran, che ha stretto accordi di cooperazione militare con Turchia, Pakistan, Afghanistn, Turkmenistan, e si è avvicinato al Qatar, tanto che le basi USA di Al Udeid in Qatar e di Incirlink in Turchia non vengono più considerate sicure (vedi qui recente e Underblog 19/7/19).

Ma ha sempre più impensierito Bibi. Il quale aveva esplicitamente rimproverato Obama per l’accordo 5+1 sul nucleare iraniano del 2015, criticato invece da Donald già in campagna elettorale. Un accordo giudicato “troppo accomodante”. Bibi, che con Obama non aveva buoni rapporti, pretendeva “in cambio” la rinuncia di Teheran ad intervenire fuori dai suoi confini.

Cosa che l’Iran non ha mai fatto. Tanto più che a Obama è seguito Trump, che quell’accordo ha poi disdetto nel 2018, indurendo le sanzioni che già strangolavano l’Iran e di cui l’accordo sul nucleare prevedeva la fine. E minacciando i paesi che non sottostanno al diktat  (vedi Underblog 25/5/19).

Né la pavida Europa, che ancor oggi richiama a parole il rispetto di quell’accordo che Teheran ha dichiarato di non voler più onorare, ha avuto il coraggio di opporsi ai ricatti di Trump che avrebbero colpito le sue banche e le sue industrie. Eppure avrebbe potuto, ne aveva gli strumenti, spiegava in tv  Gianpiero Gramaglia, dell’Istituto Affari Internazionali.  Lo farà adesso, proponendo qualcosa di concreto al ministro degli Esteri iraniano Zarif che l’Alto rappresentante UE ha invitato a Bruxelles? Ne dubitiamo.

A Soleimani, politico accorto oltre che valido generale, tutto ciò – e molto altro -era certo ben presente. E probabilmente sapeva di essere nel mirino. Ma non era il tipo da tirarsi indietro. Anzi.

Con un Libano divenuto più instabile e un Irak dove l’ostilità agli Usa si intreccia con un crescente rigetto di interferenze esterne, forse anche iraniane, a quanto raccontano inviati solitamente corretti come Lorenzo Cremonesi del Corriere, in questi giorni a Bagdad, Soleimani avrebbe cercato di approfittarne? Donald, ma in primis Bibi, molto probabilmente lo temevano.

L’assalto di massa all’ambasciata Usa nella super protetta Zona verde è stato forse il pretesto per mettere in atto un’azione certo non improvvisata, ma da tempo preparata. Un momento e un movente di cui approfittare.

Un gesto a cui si può supporre che lo stesso Pentagono non fosse favorevole. Deciso “da Trump”, è stato infatti detto. Da solo o consultandosi con l’amico Bibi?

Un successo di entrambi, tutti e due sotto elezioni? E’ presto per dirlo. E il mondo segue preoccupato gli sviluppi.

L’assassinio di Soleimani sembra aver ricompattato l’Irak, il cui Parlamento ha appena votato l’espulsione di tutti i militari stranieri, americani e loro alleati, ma anche di altri paesi compreso  l’Iran.  E pure l’Iran , poco tempo fa attraversato da tensioni interne economiche e non solo, a quanto appare dalle immani folle che hanno accompagnato l’arrivo della bara del generale, e dall’orgoglio patriottico alle stelle.

Mentre il fronte occidentale è diviso, con gran parte dell’UE perlessa se non del tutto critica. Al punto che la NATO ha convocato una riunione urgentissima. Vedremo. Certo il venir meno di una mente politica accorta e a suo modo equilibrata come Soleimani lascia un vuoto a Teheran, al di là dello scambio di minacce di ritorsioni, a cui Trump ha risposto per le rime.

E’ un fatto invece l’annunciata ripresa a tutti gli effetti del programma nucleare iraniano di arricchimento dell’uranio in vista di una bomba atomica, che potrebbe indurre i falchi americani (e israeliani) a spingere verso altre avventure.

Non resta di sperare nelle capacità diplomatiche…di Putin e Xi Jin Ping.

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Perché contro l’Iran una guerra convenzionale Trump non la può lanciare (ma continua a pattugliare il Golfo)

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22 giugno2019. Il presidente Trump in uno dei suoi tweet si vanta di aver sventato all’ultimo momento un attacco contro tre obiettivi iraniani, come rappresaglia al drone abbattuto da Theeran, e i misteriosi attacchi a due petroliere straniere nel Golfo Persico, che gli US avevano imputato all’Iran. Il mondo tira un sospiro di sollievo, un conflitto sembrava imminente. Molte compagnie aeree avevano già dato ordine di non volare sui cieli del Golfo. Su Twitter i bene informati sostengono che sia stato lo stesso Pentagono a bloccare iniziative belliciste inopportune. Sostenute dai falchi dell’amministrazione? Non è dato sapere. La verità è che una guerra convenzionale nei confronti dell’Iran gli Usa non se la potrebbero permettere. Questa almeno è la tesi di una lunga dettagliata analisi del prof Michel Chossudovsky su Global Research, il centro canadese di ricerche da lui fondato molti anni fa. Il professore è assai ostile agli US, ma sempre documentato.

“Nelle condizioni attuali un intervento come quello in Iraq che comporti forze di terra, d’aria e navali sarebbe impossibile in Iran – è la sintesi . Per diverse ragioni. L’egemonia degli Stati Uniti nel Medio Oriente si è estremamente indebolita, in conseguenza dell’evolversi della struttura delle alleanze militari. Gli US non sarebbero in grado di portare avanti un tale progetto”.

I temi di fondo sono due, ma è il secondo ad essere approfondito.

Le forze militari dell’Iran, ovvero la sua capacità (forze di terra, navali, aeree, di difesa) di resistere e rispondere. Le sue forze di terra, navali, aeree sono consistenti, ha un’industria bellica e sta per ricevere il potente sistema missilistico russo di difesa S-400. Con 534.000 persone attive tra esercito, marina e aeronautica e il corpo speciale delle Guardie Islamiche Rivoluzionarie (IRGC) è considerato la ‘maggior potenza militare’ del Medio Oriente. In caso di attacco potrebbe colpire i siti militari US nel Golfo Persico.

L’evolversi della struttura delle alleanze militari (2003-2019, largamente a detrimento degli Stati Uniti. E’ il punto decisivo, su quale di solito poco si riflette. Diversi alleati tra i più fedeli ‘dormono con il nemico’.Paesi che confinano con l’Iran come il Pakistan e la Turchia hanno accordi di cooperazione militare con l’Iran. Ciò in sé esclude la possibilità di una guerra di terra, ma influenza la capacità di US e alleati di pianificare operazioni navali e aeree. Eppure fino a tempi recenti entrambe – la Turchia è un membro NATO di peso – erano tra i più fedeli alleati dell’America, di cui ospitano basi militari importanti.

Da un più vasto punto di vista militare, la Turchia coopera attivamente sia con l’Iran che con la Russia. Di più. Ankara ha appena acquisito il sistema di difesa missilistico S-400, stato dell’arte della Russia, ponendosi di fatto fuori dal sistema di difesa aereo integrato US-Nato-Israele. Tra luglio e agosto operatori del sistema verranno addestrati in Russia. Inoltre, in Siria US e Turchia combattono su fronti opposti. Secondo un recente articolo di Foreign Affairs – aggiungiamo – la questione curda è stata la prima causa della rottura fra i due paesi e dell’avvicinamento di Ankara alla Russia.

Non c’è bisogno di sottolineare che il Trattato di Organizzazione Nord Atlantica è in crisi. Lo stesso Chossudowsky approfondisce la questione in un successivo post del 13/ 7, arrivando a chiedersi se l’uscita della Turchia dalla Nato non sia imminente.Anche l’Iraq ha indicato che non collaborerà con gli US in caso di guerra contro l’Iran. Ancor più significativo il fatto che nessuno degli stati vicini all’Iran, dai suddetti Turchia e Pakistan ad Afghanistan, Iraq, Turkmenistan, Azerbaijan e Armenia consentirebbe a forze di terra americane e alleate di transitare sul loro territorio. Né coopererebbero con gli US in una guerra aerea.

L’Azerbajan, che durante la guerra fredda era un alleato degli US nonché membro della ‘partnership for peace’ della Nato, ha cambiato fronte. E lo scorso dicembre ha firmato un accordo di collaborazione militare e di intelligence con l’Iran, che a sua volta collabora anche con il Turkmenistan. L’alleanza post sovietica GUAM (Georgia, Ucraina, Azerbajan, Moldavia) è virtualmente defunta.Quanto all’Afghanistan, con i Taliban che controllano la maggior parte del territorio, la situazione non favorisce certo un dispiegamento di forze di terra americane/alleate al confine con l’Iran.

In conclusione, la politica di aggiramento strategico nei confronti dell’Iran formulata alla vigila della guerra con l’Iraq (2003) non funziona più. L’Iran ha relazioni amichevoli con i paesi vicini un tempo sotto l’influenza americana.

In queste condizioni lanciare una guerra convenzionale di teatro con truppe di terra sarebbe un suicidio, conclude il nostro. Aggiungendo tuttavia che ciò non significa che una qualche forma di intervento diretto contro l’Iran non sia possibile. E non sia nei piani del Pentagono. Chossudovsky ne fa un elenco:

*varie forme di ‘guerra limitata’, es attacchi missilistici;*sostegno a gruppi terroristi paramilitari da parte di US/alleati;*cosiddette ‘bloody nose operations’, vale a dire forme di intervento preventivo, già prese seriamente in considerazione verso la Corea del Nord nel 2018;*destabilizzazione politica, ‘rivoluzioni colorate’;*attacchi false flag e minacce unilaterali;*guerra alettromagnetica e/o climatica (ENMOD);*cyberwarfare;*attacchi chimici o biologici;*sabotaggi, confische di asset finanziari, sanzioni economiche massicce.

[Queste ultime sono quelle che Trump ha già attuato e ha ulteriormente minacciato di estendere recentemente, dopo l’annuncio di Teheran di una ripresa dell’arricchimento dell’uranio motivato dal blocco economico che ha colpito l’Iran dopo l’abbandono da parte degli US di Trump dell’accordo del 2015].

I quartier generali dell’US Central Command situati in territori diventati nemici. E’ la considerazione forse più grave nell’evoluzione della struttura militare americana. L’USCENTCOM è il Comando combattente a livello di teatro per tutte le operazioni nella più vasta regione del Medio Oriente, dall’Afghanistan al Nord Africa. E’il più importante Combat Command della struttura Unified Command. Ha condotto e coordinato i maggiori teatri di guerra in Medio Oriente dall’Afghanistan (2001) all’Iraq (2003) ed è anche convolto in Siria.In caso di guerra all’Iran le operazioni in M. O. sarebbero coordinate dal US Central Command nel quartier generale di Tampa, Florida in collegamento permanente con il quartier generale dell’CENTCOM, che si trova in Qatar.

Il punto chiave è questo.Dopo l’abbattimento del drone da parte di Teheran, a fine giugno scorso, quando Trump annunciò di aver bloccato l’imminente attacco all’Iran il CENTCOM confermò il dispiegamento degli F-22 stealth nella base di Al-Udeid, in Qatar ”in difesa delle forze e degli interessi americani” Ne ha parlato Michel Welch, sullo stesso Global Research il 30/6/2019).“La base è tecnicamente proprietà del Qatar e ospita i quartier generali dell’US Central Command. Con 11.000 militari americani, viene descritta come ‘una delle basi più durature e strategicamente posizionata del pianeta’ (Washington Times). Ospita l’US Air Force’s 379th Air Expeditionary Wing, considerata ‘il più vitale commando aereo dell’America all’estero’ “.

Quello che i media e gli analisti militari dimenticano di far sapere – sottolinea Chossudovsky – è che il quartier generale avanzato per il Medio Oriente dell’US CENTCOM presso la base militare di al-Udeid vicino a Doha di fatto “si trova in territorio nemico”. Come si è arrivati a tanto?

Il progetto di Trump era dar vita a una Middle East Strategic Alliance (MESA), una sorta di ‘NATO Araba’ sotto la supervisione saudita, che avrebbe compreso Egitto e Giordania insieme ai membri del Gulf Cooperation Counci [l’alleanza fra i paesi del Golfo – Arabia Saudita, UAE, Qatar, Bahrein, Kuwait, Oman – che data dal 1981 ma fra vari disaccordi non è riuscita a crescere a più livelli come si proponeva].La dichiarazione di Riyad, il 21 maggio 2017, alla fine dello storico summit con Trump nella capitale saudita, annunciava la costituzione della MESA – senza il Qatar, ma mantenendo intatto il GCC – per contrastare l’egemonia dell’Iran.

Due giorni dopo, scatta un embargo verso il Qatar.L’Arabia Saudita blocca il suo confine terrestre col Qatar, accusato di sostenere il terrorismo e di collaborare con Theheran. E insieme a Emirati (UAE) e Bahrein dà vita a un embargo aereo e navale verso Doha.

E però il Qatar, apparentemente isolato, trova subito nuovi amici nella Turchia e nell’Oman, il sultanato che insieme all’Iran controlla lo stretto di Hormutz. Turchia, Iran e Pakistan [che è alleato della Cina] accrescono i commerci col paese, grazie ad accordi bilaterali. Ankara stabilisce anche una presenza militare in Qatar, ricevendo in cambio investimenti per $20 miliardi [il Qatar non lesina denari agli amici]. “Oggi il paese brulica di uomini d’affari iraniani, personale ed esperti dell’industria petrolifera, per non menzionare la presenza di russi e cinesi, scrive Chossudovski.

Da quel maggio 2107 il Qatar diventa un convinto alleato sia dell’Iran che della Turchia – che è anche alleata dell’Iran ed è sempre più vicina alla Russia – pur non avendo nessun accordo militare ‘ufficiale’ con Teheran. Notare che Qatar e Iran condividono la proprietà del giacimento marittimo di gas naturale più grande al mondo.E Russia, Iran e Qatar messi insieme possiedono oltre la metà delle riserve di gas conosciute.

[Lo ricordava fra l’altro una approfondita analisi sul sito russo RT.com del marzo scorso che, sulla scorta di interessanti recenti post di Asia Times e Middle East Eye esordiva: “Una nuova alleanza fra Qatar ,Turchia e Iran con il potenziale appoggio di Russia e Cina rappresenta la maggior preoccupazione di USA, Israele e Arabia Saudita . La conseguenza di otto anni di guerra in Siria hanno modificato le dinamiche regionali in un modo certamente mai immaginato dagli Stati Uniti e dai loro alleati”].

Interpretazione Russa? Affatto. Che il Qatar sia ormai un solido alleato di Iran e Turchia, lo conferma l’Atlantic Council, think tank vicino a Pentagono e Nato. Chossudovsky ne cita anche alcune frasi:“ Il 15 giugno il presidente Rouhani ha sottolineato che rafforzare i rapporti con il Qatar è un’alta priorità per i politici iraniani. All’Emiro qatariota ha detto che ‘stabilità e sicurezza nei paesi della regione sono interconnesse’. In cambio il capo di stato del Qatar ha affermato che Doha mira a una stretta alleanza con la Repubblica Islamica’” . L’evoluzione politica e militare della Turchia preoccupa molto l’occidente, come abbiamo visto sopra citando Foreign Affaris, la rivista del Council of Foreign Relations che lega l’allontanamento dagli US al problema dei Curdi.

Ma è tutta la strategia americana in Medio Oriente ad essere in crisi, come emerge dal nuovo viaggio di Trump a Riyad lo scorso aprile 2019. Ai Sauditi, pur indeboliti dall’affair Kashoggi, viene affidato il rilancio della MESA formulata nel 2017, a dispetto del fatto che tre membri del GCC – Qatar ma anche Kuwait e Oman sono ormai impegnati nel normalizzare i rapporti con l’Iran. In più l’Egitto del presidente al-Sisi decide di sfilarsi dalla proposta di una Nato Araba obiettando che “creerebbe tensioni con l’Iran”.

Insomma, se l’obiettivo US era creare un ‘blocco Arabo’ in funzione anti-Iran, il risultato è una tacita spaccatura dello stesso GCC e la creazione dell’asse Iran Turchia Qatar di cui sopra, con Ankara alleata dell’Iran e sempre più vicina alla Russia e il Pakistan, alleato della Cina, diventato il maggior partner del Qatar. L’Oman neutrale come pure il Kuwait, che non è più allineato all’Arabia Saudita, pur mantenendo buoni rapporti con Washington, di cui ospita facilities militari. Trump ha finito per ritrovarsi con una ‘mezza MESA’ con Arabia Saudita, Bahrein e Giordania. Senza nemmeno l’Egitto, con Kuwait e Oman neutrali, e il Qatar in braccio al nemico.Secondo Chossudowsky il progetto della Nato Araba con supervisione Saudita contro l’Iran appare insomma definitivamente saltato, e la prospettiva di un intervento militare in Iran, impossibile.

Il tutto sembra avvenire molto sotto traccia. Il Pentagono ha in apparenza deciso di mantenere ufficialmente il quartier generale dell’US Central Command in Qatar, ma avrebbe intenzione ricollocare parte degli aerei, personale, e funzione di comando altrove. In Arabia Saudita? Probabilmente. Non è chiaro chi abbia ordinato l’embargo al Qatar, conclude Chossudowsky: a suo parere i Sauditi non l’avrebbero fatto senza l’avvallo di Washington.

Gli US poliziotti del Golfo, ma sempre più soli. E’ un altro capitolo, che aggiungiamo. L’egemonia US nella regione come si è visto risulta assai indebolita.In questa situazione anche il transito delle navi da guerra verso il quartier generale della V Flotta in Bahrein è potenzialmente minacciato. Per non dire delle operazioni navali nel Golfo. Lo stretto di Hormutz, ingresso nel Golfo Persico, è sotto il controllo del nemico Iran e del neutrale Sultanato di Oman.Trump appare isolato anche nella funzione di ‘vigilanza’ del traffico del petrolio dal Golfo Persico .

L’11 luglio scorso gli “US hanno annunciato che continueranno a vigilare, malgrado le proteste di Trump”. Così titolava il Financial Times. Proteste? Dopo i misteriosi attacchi alle due navi cisterna, una giapponese e una norvegese, attribuiti dagli US all’Iran (che ha recisamente negato), il presidente aveva chiesto agli alleati e ai paesi importatori di petrolio asiatici di contribuire alla sicurezza di una rotta cruciale per il greggio globale: un quinto del petrolio del mondo passa infatti dallo stretto di Hormutz.In un tweet Trump ha criticato Cina e Giappone e “molti altri paesi” per non contribuire abbastanza alla sicurezza delle forniture di petrolio.

Un appello che riecheggia quello da parte di presidente degli Stati maggiori US Joseph Dunford rivolto esplicitamente agli alleati Nato. Ma i paesi asiatici appaiono riluttanti a prendere una posizione ostile all’Iran, scriveva il FT, citando un professore di Harvard di turno, per il quale India, Corea del Sud e Giappone hanno meno probabilità di unirsi agli US di Sauditi, Emirati ed europei. Ma anche questi nicchiano. Gli europei avranno riserve ad aderire ufficialmente a una coalizione marittima US dopo che Trump si è ritirato dall’accordo nucleare con Theheran .

L’unico alleato collaborativo – aggiungiamo – è l’UK, che l’anno scorso ha aperto una base in Bahrein e ha navi che pattugliano lo stretto. E’ stato l’unico paese a spalleggiare gli US nelle accuse all’Iran alle petroliere e sostiene addirittura di aver respinto un tentativo iraniano di impedire il passaggio di una petroliera BP (per rappresaglia dopo il blocco inglese di una nave iraniana a Gibilterra, racconta un post di gulfnews.comdedicato al nuovo mistero di una petroliera scomparsa, aggiungendo che dopo le minacce iraniane a petroliere britanniche gli US prevede scorte navali.

D’altra parte gli US non possono rinunciare a fare i poliziotti del Golfo dove passa un quinto del traffico mondiale di petrolio. Il perché lo spiega un’analisi molto interessante su TomDispatch.com di Michael T. Klare, collaboratore abituale del sito, professore emerito dell’università dell’Hampshire, autore di vari testi. Al cuore dei conflitti in medio Oriente, inclusa la crisi con l’Iran– è la sua tesi – ci sono tre semplici lettere: oil, ovvero c’è da sempre il petrolio.

Il punto è politico. Per quanto gli US non dipendano più se non in minima parte dalle importazioni di petrolio, da quando il fracking assicura loro il 75% del fabbisogno (nel 2008 era il 35%), alleati chiave della Nato e rivali come la Cina tuttora continuano a dipendere dall’oil del Medio Oriente. E l’economia, mondiale, di cui l’America è la prima beneficiaria, è legata al flusso petrolifero ininterrotto dal Golfo persico, per tenere basso il prezzo.

Nonostante le accuse ai combustibili fossili di contribuire al cambiamento climatico, secondo l’ultimo report di BP il petrolio nel 2018 ha rappresentato ancora il 33,6% del consumo globale di energia, seguito dal 27.2% dal carbone, 23,9% del gas naturale, 6,8 energia idroelettrica, 4,4% nucleare e un misero 4% di rinnovabili.E il consumo di petrolio è previsto in salita. Due terzi del petrolio vengono ancora oggi consumati dai paesi industrializzati, ma nel 2040 secondo l’IEA le proporzioni sono destinate a ribaltarsi a vantaggio dei paesi emergenti non OCSE. La quota della regione Asia-Pacifico al 28% nel 2000, si prevede salirà al 44% grazie alla crescita di Cina, India e altri paesi asiatici.Da dove prenderanno il petrolio necessario? Gli esperti non hanno dubbi: si rivolgeranno all’unico luogo capace di soddisfare la loro richiesta. :il Golfo Persico.

Ci fermiamo qui. Ma è evidente che il controllo di questo traffico è strategicamente cruciale. Rinunciarvi per gli US significherebbe abdicare al loro ruolo egemonico, sia pure declinante.

Aggiunta interessante.La reazione all’indebolimento degli US in Medio Oriente, cominciata in Siria dove il regime change è clamorosamente fallito, passa per un piano di contenimento della Turchia da parte di Arabia, Emirati più Israele e Egitto che paradossalmente prevede fra l’altro una riabilitazione di al Assad in Siria (dove gli Emirati hanno appena riaperto l’ambasciata) , che verrebbe fatto entrare nella Lega Araba . Ma in cambio l’Egitto pretende che la Siria consideri nemici Turchia, Qatar e Fratellanza Musulmana. Guarda a caso sono gli stessi due fronti che in Libia sostengono da una parte il generale Haftar, dall’altra al Serraj. Per dire quanto sono intrecciati i fronti.A rivelare il piano è stato un report esclusivo di Middle East Eye che racconta un summit al quale ha partecipato il Mossad. Ci torneremo.

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2019/06/21/iran-da-trump-ok-attacchi-poi-lo-stop_ca67290f-4f36-4ada-a7f4-8a434b1acb5b.html

https://www.globalresearch.ca/a-major-conventional-war-against-iran-is-an-impossibility-crisis-within-the-us-command-structure/5682514 Prof Michel Chossudovsky , 8/7/ 2019

https://www.globalresearch.ca/shifting-alliances-is-turkey-now-officially-an-ally-of-russia-acquires-russias-s-400-exit-from-nato-imminent/5683458 stesso autore, 13/7

https://www.ft.com/content/22481dd8-a302-11e9-974c-ad1c6ab5efd1 11/7US will keep policing the Gulf despite Trump protests |President’s call for help in Hormuz Strait likely to be ignored by Asian countries.

https://af.reuters.com/article/worldNews/idAFKCN1U5118 10/7 Trump threatens to ‘substantially’ increase sanctions on Iran – Reuters

https://www.foreignaffairs.com/articles/turkey/2019-07-09/why-turkey-turned-its-back-united-states-and-embraced-russia Why Turkey turned its back on the Us and embraced Russia

http://www.tomdispatch.com/post/176584/tomgram%3A_michael_klare%2C_it%27s_always_the_oil/#moreThe Missing Three-Letter Word in the Iran Crisis. Oil’s Enduring Sway in U.S. Policy in the Middle East . By Michael T. Klare

https://www.rt.com/op-ed/454512-alliance-iran-qatar-turkey-saudi/ New Turkey-Iran-Qatar axis is rising in Middle East, and it has Saudi Arabia furious 22/3/19

https://cms.ati.ms/2018/01/americas-syrian-humiliation-worse-looks/ 26/1/2018

https://www.middleeasteye.net/news/revealed-how-gulf-states-hatched-plan-israel-rehabilitate-assad gennaio 2019

https://www.lettera43.it/petroliera-emirati-arabi-iran/ 17 lugliohttps://gulfnews.com/opinion/editorials/the-mystery-of-the-missing-tanker-1.65275294

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Le guerre economiche di Trump colpiscono l’UE insieme a Cuba, Iran Venezuela… Gli Europei meditano reazioni

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Il caso dell’Iran è solo l’ultimo salito alla ribalta della cronaca, con le nuove ulteriori sanzioni su ferro acciaio alluminio e rame varate dal presidente Trump. Poche ore prima il presidente della Repubblica Islamica Hassan Rouhani aveva annunciato che l’Iran ricomincerà ad arricchire l’uranio per fini militari se entro 60 giorni le diplomazie internazionali non interverranno per salvare l’accordo sul nucleare, o JCPOA-Joint Comprehensive Plan of Action, del 2015, dal quale gli Usa di Trump si sono ritirati giusto un anno fa. Un accordo raggiunto con i paesi del gruppo “5+1”, i cinque che hanno potere di veto nel Consiglio di sicurezza (Stati Uniti, Russia Cina, Francia e Regno Unito) più la Germania. E l’Unione Europea. Formalmente riconosciuto anche dall’ONU.
Commenti preoccupati, immediati sul Financial Times, poi a ruota su vari media e siti, l’escalation americana potrebbe portare a un incidente in grado di scatenare una guerra regionale, che nessuno in realtà vorrebbe a parte i falchi Usa come Mike Pompeo e soprattutto John Bolton, il consigliere per la Sicurezza.
Il problema va oltre l’Iran e riguarda le guerre economiche di Trump che – insieme ai dazi e alle tariffe con cui colpisce a destra e a manca in un crescendo tale da farlo definire “dangerously addicted”(1), pericolosamente dipendente, da un commentatore non nemico come Ambrose Evans Pritchard – utilizza l’arma delle sanzioni in un gran numero di paesi compresi Cuba, Venezuela e Siria, Sudan, Nord Corea, più naturalmente Russia, eccetera. Sanzioni la cui legittimità è discussa, sicuramente illegali quando hanno una portata extraterritoriale, quando cioè l’effetto di leggi americane viene esteso a paesi terzi. Primi gli alleati europei.
Del resto “La logica dell’amministrazione americana è proprio quella di utilizzare il diritto per difendere gli interessi economici degli Stati Uniti ed eliminare i concorrenti”, si osserva in vari post dell’IRIS, think tank francese molto impegnato su questo fronte (2). Utilizzare il diritto, forzarlo o scavalcarlo? Dipende.
L’Unione Europea scalpita e minaccia rappresaglie. Ma cosa può fare in concreto? Poco, come vedremo, stretta com’è tra la Nato, i Trattati e la supremazia del dollaro. Poco, soprattutto, se divisa al suo interno, con ogni paese preoccupato a difendere il suo orticello, e i paesi al confine est satelliti degli US. Il tema dei rapporti interni all’impero americano è attualissimo, Limes vi ha dedicato l’ultimo numero, vol4/2019 : Antieuropa, l’impero europeo dell’America(3)
Intanto diamo uno sguardo ai luoghi più caldi di questa guerra economica combattuta da Trump in nome dell’America First, dove “il Tesoro è ormai uno strumento di politica estera più potente del Pentagono, con tutte le sue portaerei e droni” (Patrick Cockburn, Counterpunch). Tesoro, il cui ‘comandante in capo’ en passant è Steven Mnuchin, ex Goldman Sachs.
CUBA. Dal 2 maggio scorso l’amministrazione americana può citare in giudizio le società straniere presenti a Cuba, applicando il titolo III di una legge del 1996 i cui effetti erano stati fino a oggi sospesi. La legge bipartisan Helms-Burton, di portata extraterritoriale promulgata sotto Bill Clinton consente infatti di perseguire imprese o persone che hanno investimenti, interessi legali o affari in corso di vario genere che si sospetta abbiano a che fare con beni nazionalizzati da Fidel Castro nel lontano 1959 (4)
In pratica le molte società canadesi ed europee –in primo luogo francesi e spagnole – impegnate a Cuba, saranno costrette ad andarsene per non essere sanzionate negli Usa. In ballo asset per un paio di miliardi di dollari, capitali di cui Cuba ha grande bisogno per ricostruirsi e rilanciarsi.
Francesi furibondi, Spagnoli a seguire. Trump “ha lanciato la più grande guerra economica contro l’Europa utilizzando Cuba come pretesto”, ha dichiarato un parlamentare transalpino.
La Francia ha già avuto occasione di assaggiare il carissimo prezzo delle ritorsioni americane nel 2014, quando BNP Paribas, una delle due maggiori banche francesi, fu multata per ben $9 miliardi per aver operato transazioni per conto di entità Cubane, Iraniane e Sudanesi nella lista nera degli US. La banca perse anche il diritto a cambiare valuta straniera in dollari per un intero anno. Lo racconta un post didascalico curato dal Council of Foreign Relationsvolto a dare qualche informazione nell’intricata materia sanzionatoria (5).
Come vedremo la dimensione extraterritoriale delle sanzioni americane va oltre il caso Cuba, che però resta un simbolo, nella strategia d Trump mirante ad annientare i residui paesi “socialisti” per riconquistare il predominio assoluto nell’America latina.
Nello stesso giorno in cui il Segretario di Stato Mike Pompeo annunciava la riattivazione del Titolo III venivano varate nuove misure restrittive nei confronti di Nicaragua e Venezuela, gli altri due componenti della “troika della tirannia. Prese di mira le banche centrali dei due paesi, oltre a interdizioni a varie personalità, e altro.
VENEZUELA. Forse memore del caso di BNP Paribas, Macron ha fatto recentemente marcia indietro sulle sanzioni al Venezuela. Nell’agosto 2018, aveva infatti annunciato che il successivo novembre non avrebbe aderito al prolungamento di un altro anno delle misure restrittive prese dall’UE nel 2017 su richiesta Usa. Un gesto di insubordinazione significativo, quello francese, molto apprezzato in quella parte del sud America che ancora resiste (6).
Se ne compiaceva un sito sudamericano citando BBC World: “I paesi hanno deciso le sanzioni al Venezuela per compiacere gli Usa”. La Francia in un primo tempo avrebbe tentato di proporsi come ‘facilitatore’ per stabilire un dialogo. Secondo ADN Radio dal Cile anche la Spagna si sarebbe detta contraria.
Era stato del resto lo stesso presidente Trump a chiedere all’UE di sanzionare il governo Maduro nel settembre 2017. In quanto parte di un piano su larga scala, ha spiegato il Segretario di Stato Mike Pompeo, ex direttore CIA, a una conferenza dell’American Enterprise Institute .
Le sanzioni comprendono un ampio ventaglio di divieti, il congelamento di beni di funzionari, a partire dal presidente, nonché la proibizione di fornire sostegno tecnico o finanziario al Venezuela. Secondo Maduro le misure adottate da US e UE impedirebbero al paese persino di approvvigionarsi di cibo e di medicine.
I boicottaggi sono arrivati al punto che Bank of England ha rifiutato di rimpatriare 14 tonnellate, valutate $570 milioni, delle riserve venezuelane che la banca centrale britannica detiene per un valore pari a $1.2 miliardi, su richiesta del presidente. Per evitare il riciclaggio, hanno spiegato dalla banca centrale inglese. Ma secondo il Timesil motivo vero era il timore di Maduro di nuove ulteriori misure. Solo negli ultimi giorni la tranche richiesta è stata sbloccata.
Fatto sta che Macron ha fatto marcia indietro. In cambio di qualcosa da parte di Trump probabilmente, magari in Libia. Ma a scapito della sua immagine di paese relativamente “indipendente”, secondo il sito latinoamericano.
IRAN. E’ ancora il Trump – chi altri sennò? – l’autore di nuove mosse aggressive che colpiscono anchel’Europa. Non solo ha aggiunto nuove sanzioni su ferro, acciaio, alluminio, rame ma ha anche cancellato le deroghe concesse ad otto paesi importatori di petrolio iraniano – tra i quali l’Italia e Grecia – che li esentavano temporaneamente dalle durissime sanzioni decise lo scorso novembre che avevano colpito società di navigazione ma soprattutto banche e petrolio. Deroghe dettate dal timore di destabilizzare il prezzo dell’oil, venuto meno dopo i recenti accordi con i Sauditi.
E’ l’ultimo atto – peraltro ormai ininfluente, di una aggressione che mira ad annientare ogni ripresa del paese ilquale, sotto sanzioni Usa dal 1979 , contava di risorgere dopo l’accordo del 2015. Quello dal quale Trump ha fatto carta straccia nel 2018, con grande soddisfazione di Israele, sodale dell’America di Trump, e dell’alleata Arabia Saudita. The Donald lo aveva promesso in campagna elettorale, attaccando a testa bassa Obama.
Da allora è stato un crescendo di ostilità: la Guardia Repubblicana di Teheran, un corpo di Stato, è stata dichiarata organizzazione terroristica e lo scorso 19 agosto, in occasione dell’anniversario del rovesciamento del primo ministro iraniano Mossadeq da parte della CIA, il segretario di Stato Pompeo, che della CIA è stato capo tra il 2017 e il 2018, ha dato vita all’ Action Group for Regime Change in Iran (7)
Nel frattempo imprese europee e multinazionali (Daimler, Total, British Airways, Air France, banche varie ecc) sospendevano le loro relazioni commerciali col paese sottostando silenziosamente alle sanzioni nel timore di ritorsioni sul mercato americano, e non si capiva più che fine avrebbe fatto l’accordo.
Fino all’annuncio di Rouhani che ha di colpo alzato il livello dello scontro. E ha passato la palla passa agli altri firmatari. Compresa la UE.
Da Bruxelles nell’anno trascorso dal ritiro di Trump i segnali sono stati misti (8). Dure le parole. La Commissione è arrivata a invocare lo” statuto di blocco” una misura europea del 1996, mai utilizzata, che proteggerebbe le società dell’Unione dalle sanzioni extraterritoriali americane (lo vedremo).
Nessuna azione concreta però è stata intrapresa, tra rimandi ed equivoci. L’alta rappresentante per la politica estera Federica Mogherini si è limitata a fare pressioni su Trump per assicurare esenzioni che consentissero ai paesi UE relazioni con l’Iran. Richieste ignorate da Washington. Né hanno ottenuto risultati gli umilianti viaggi alla Casa Bianca di Merkel e Macron, rimasti infatti su posizioni ambigue dopo il recente annuncio di Rouhani.
“Insieme confermiamo il nostro impegno all’JCPOA, un accordo importante per la nostra comune sicurezza” hanno dichiarato con la May qualche giorno fa. Chiedendo a tutte le parti in gioco di continuare a rispettare gli impegni sottoscritti. Ma guardandosi dal deprecare le mosse di Trump al di là di un vago ‘rincrescimento e preoccupazione’; e senza accennare alla ripresa di una normale attività diplomatica, economica, finanziaria e commerciale in Iran. Come se questa parte non fosse compresa negli accordi sottoscritti: come possono continuare ad essere validi se a rispettarli sono solo alcuni dei contraenti?
SANZIONI UE e USA. L’ESCALATON DI TRUMP. Le sanzioni non sono una novità. Ma fino al 1980 erano state adottate solo verso la Rodesia (1965), il Sud Africa dell’apartheid (1977), poi all’Iran (1979). In passato però si trattava per lo più di sanzioni dell’ONU, legittime, legali e globali in sé.
UE. Dagli anni 1990, con la fine della guerra fredda, le sanzioni sono diventate uno strumento di politica estera sempre più utilizzato (9). Da 6 sanzioni nel 1991 la UE è arrivata ad applicarne oggi circa 30, con varie motivazioni, persino a “sostegno della democrazia”.
Del resto la maggior parte sono adottate in tandem con gli USA, sebbene quelle europee siano solitamente più blande (verso la Siria e l’Ucraina per es colpiscono un numero minore di beni/organizzazioni, verso la Russia consentono di continuare i vecchi progetti, come in Nord Stream). Segno della scarsissima indipendenza dell’Unione in materia di politica estera, come vedremo .
USA. A d utilizzare l’arma delle sanzioni in modo sempre più massiccio dal crollo dell’URSS in poi sono gli Stati Uniti, che hanno via via trasformato questo strumento politico poco costoso e poco rischioso rispetto, a metà strada fra la diplomazia e la guerra economica. Non solo il numero delle sanzioni è infatti molto cresciuto ma è profondamente cambiata la loro ‘qualità’. Due le novità: le sanzioni finanziarie e quelle extraterritoriali. Spiega il post del Council of Foreign Relations citato sopra:
Immediatamente dopo l’11/9 – “di concerto con gli alleati – gli USA “hanno dato vita a una campagna concentrata sull’accesso al sistema finanziario globale – le banche internazionali. Il 23 settembre G.W. Bush con un ordine esecutivo assegna al Tesoro l’autorità di congelare beni e transazioni finanziarie di individui e altre entità sospettate di sostenere il terrorismo. Poco più tardi in base al Patriot Act lo stesso Bush Jr amplia i poteri del Tesoro che può indicare anche istituzioni o paesi come dediti al riciclaggio in base a semplici sospetti – non servono prove.
Nasce così l’OFAC- Office of Foreign Assets Control, dipartimento speciale del Tesoro che oggi amministra la maggior parte dei 26 programmi americani di sanzioni. Il Segretario di Stato può indicare un gruppo come ‘organizzazione terroristica’ o etichettare un paese come ‘sponsor del terrorismo’, e le misure scattano. L’OFAC di routine aggiorna la sua lista nera che conta oltre 6000 individui, società e gruppi i cui asset vengono bloccati e con le quali a persone e imprese americane, comprese le filiali straniere, è vietato fare transazioni.
Nel 2017 gli USA hanno deciso regimi di sanzioni onnicomprensive (verso paesi in quanto tali, anche questa è una relativa novità) nei confronti di Cuba, Iran, Sudan, Siria. Mentre il Congresso ha deciso e il presidente ha firmato – pur riluttante –precisa stranamente il CFR – sanzioni a Russia e Nord Corea e di nuovo all’Iran.
Una vera e propria escalation dell’amministrazione Trump, che sfrutta alla grande l’impostazione economica dell’arma sanzionatoria.
Una svolta che si era rivelata profonda. “Con questo approccio, che al contrario delle classiche misure del passato prende di mira il comportamento di istituzioni finanziarie, le decisioni politiche del governo non sono così persuasive quanto il calcolo basato sul rischio delle banche”, spiega nel suo libro l’alto funzionario dell’amministrazione Bush architetto di quel sistema (Juan Zarate, Treasury’s War, 2013).
“Gli esperti sostengono che queste misure hanno ridisegnato completamente l’ambiente normativo finanziario, alzando grandemente i rischi per le banche e altre istituzioni impegnate in attività sospette, anche senza volerlo. La centralità di New York e del dollaro per il sistema finanziario globale comporta che queste politiche Usa abbiano ripercussioni globali”. A sottolinearlo è lo stesso CFR.
Le penalità per violazioni possono essere gravi in termini di multe, perdita di affari, danni alla reputazione, aggiunge, ammettendo che “negli ultimi anni le autorità federali sono state particolarmente rigorose”. E a riprova inserisce nel post una tabella con tutte le banche penalizzate (francesi, tedesche, britanniche, svizzere, olandesi, lussemburghesi, giapponesi) e i milioni pagati dal 2010 al 2015. In testa BNP Paribas di cui sopra, la maggior multa -miliardaria – mai elargita.
Il caso di BNP e gli altri simili mettono in luce la seconda fondamentale novità: le sanzioni extraterritoriali, o secondarie, che non si limitano a vietare a cittadini e imprese del proprio paese che di fare affari con entità presenti in una lista nera, come nelle sanzioni tradizionali. Ma sono disegnate per limitare l’attività economica di governi, affaristi e cittadini di paesi terzi. “Così che molti governi le considerano una violazione della loro sovranità e del diritto internazionale”, osserva il CFR.
Vedi le sanzioni all’Iran e a Cuba, volte a isolare quei paesi e insieme a colpire gli Stati che commerciano con loro. “Gli Usa possono punire banche ovunque, perfino nei paesi dove l’Iran è forte come il Libano o l’Iraq” scrive Patrick Coburn(10). Convinto che in un’escalation del conflitto iraniano gli europei saranno spettatori.
Sanzioni e imposizione di dazi e tariffe si sovrappongono e si intrecciano nelle guerre economiche ingaggiate da Trump per rilanciare la centralità di un’America sempre meno influente in un mondo ormai multipolare. Esemplare il caso Huawei. Meng Wanzhou, figlia del fondatore e manager dell’azienda, è bloccata da sei mesi Canada, dove è stata arrestata per presunta violazione delle sanzioni (americane!) all’Iran.
REAZIONI E MINACCE UE. In questo scenario paesi UE appaiono sempre più insoddisfatti e riottosi. La riattivazione del Titolo III della legge del 1996 su Cuba ha suscitato numerose reazioni in ambito UE e segnatamente in Francia. I 28 secondo l’IRIS minaccerebbero rappresaglie.
L’Unione sarebbe intenzionata a usare tutti i mezzi a disposizione. Si vagheggiano misure apparentemente fantasiose come trasferimenti in denaro elettronico capaci di sfuggire al sistema finanziario ufficiale (blockchain?) o deleghe alle banche centrali nazionali della funzione di intermediazione nel trading.(11)
Più concreto il ricorso all’WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, dal momento che le sanzioni americane sarebbero illegali e contrarie al suo regolamento, rappresentando elementi di distorsione del commercio mondiale. Opinioni discordi. Secondo alcuni potrebbe portare a ripercussioni a catena, con pignoramenti in reciprocità di beni statunitensi nell’Unione, e addirittura aprire un varco a rivendicazioni da parte di società danneggiate dal blocco americano verso paesi terzi (12).
Altri (l’IRIS)obiettano che sarebbe probabilmente un’arma spuntata: gli americani potrebbero tranquillamente decidere di uscire da quell’istituzione ormai superata: dazi e tariffe minacciati e messi in atto dall’amministrazione Trump in modo sempre più aggressivo – c’è chi li considera alla pari di vere e proprie sanzioni – hanno ormai modificato il panorama di una globalizzazione governata da regole condivise.
Ritorsioni europee potrebbero arrivare al blocco di asset americani nel continente. Ma” si tratta di pura teoria”, convengono i ricercatori dell’IRIS. Le sanzioni americane hanno un effetto estremamente dissuasivo nella misura in cui nemmeno una impresa può infischiarsene di perdere il mercato americano. Tra un (piccolo) mercato cubano potenziale e l’immenso mercato Usa, la scelta è presto fatta. Se non cooperate è <no deal>. Il caso dell’Iran insegna.
A disposizione dell’UE vi sarebbe il cosiddetto “Statuto di blocco” nei confronti degli Usa previsto dal sistema sanzionatorio comunitario (13). Una normativa creata nel 1996 in parallelo alla legge americana Helms -Burton varata in occasione delle sanzioni a Cuba, che “spunterebbe ogni arma a Washington”, secondo l’IRIS. Una misura mai invocata finora, ma aggiornata proprio nel 2018. Per applicare questa come del resto le altre sanzioni- serve tuttavia una decisione del Consiglio europeo all’unanimità.
Lo prescrivono le regole del TFEU – trattato che applica il TEU, Trattato dell’Unione Europea che ha aggiornato quello di Maastricht – che prevedono una doppia procedura: un voto a maggioranza per la parte economica delle sanzioni, e uno unanime per quel che riguarda la politica estera. Come nei desiderata dell’alleato di Oltreatlantico.
I VINCOLI DELLA POLITICA ESTERA UE – Un articolo recente di Thierry Meyssan (14) su Voltairenet intitolato “L’Unione Europea costretta a prendere parte alle guerre Usa” – che ho linkato su Twitter suscitando reazioni perplesse o indignate – sosteneva che i membri dell’UE, compresi i paesi neutrali, non possono fare a meno di uniformarsi alle sanzioni decise da Pentagono e Tesoro In quanto Washington già 25 anni fa si è cautelata dalla possibilità che l’allora a nascente Unione europea potesse avere una politica estera e di difesa indipendente dalla Nato. Imponendo di fatto una ‘clausola ad hoc’ nel trattato di Maastricht. Tanto da far intendere che l’unica via per uscirne è liberarsi dai Trattati e del comando integrato Nato. E’ così?
Che la politica estera e di difesa dell’UE debba rispettare gli obblighi derivanti dall’adesione alla Nato è una realtà, così come è indubbio che tali vincoli sono sanciti nei Trattati costitutivi dell’Unione.
La “clausola” in questione si riferisce evidentemente al Titolo V, Cap 2 del Trattato dell’Unione Europea -TEU – che ha aggiornato quello Maastricht dopo Lisbona, dedicato alla Politica estera e di sicurezza (15).
In particolare l’articolo 42 comma 2 vincola esplicitamente tale politica comune al rispetto degli impegni con la Nato presi dai suoi membri, mentre l’art 24 prescrive fra l’altro votazioni del Consiglio all’unanimità in politica estera, comprese eventuali decisioni in tema di difesa comune. (16)
Anche il fatto che gli Stati Uniti in quei medesimi anni post crollo dell’URSS in cui definivano la loro geopolitica di superpotenza unica abbiano premuto sulla nascente Unione appare ben più che una supposizione.
“Dobbiamo prevenire l’emergere di accordi di sicurezza esclusivamente europei che possano minacciare la NATO”, si leggeva nel Defense Planning Guidance, il documento del Pentagono poi noto come “Dottrina Wolfowitz”, da Paul Wolfowitz, il neocon vice di Dick New York alla Difesa con George W:H.Bush (citazione dal New York Times marzo 1992, che Meyssan linka col Washington Post (17). Praticamente in contemporanea con il Trattato di Maastricht che gettava le basi nell’UE.
Era la definizione della strategia degli Usa superpotenza unica dopo il crollo dell’URSS, che tra l’altro già prevedeva l’intervento in Iraq. Gli US si impegnavano a difendere dalla Russia le nazioni europee dell’ex Patto di Varsavia. E chiedevano alla comunità europea di fare diventare membri dell’Unione i paesi dell’Est “il prima possibile”. Richiesta esaudita. Così come, contravvenendo alle assicurazioni date a Gorbaciov in occasione dell’unificazione della Germania, la Nato si è poi allargata a Est, dalle Repubbliche Baltiche alla Polonia, dove saranno presto installate otto batterie di missili Patriot puntati sulla Russia e stanno per arrivare gli F-35.
I paesi europei devono liberarsi dei Trattati e del comando integrato della Nato, dove non contano nulla (18), suggerisce Meyssan indicando l’esempio della Gran Bretagna che ha optato per la Brexit. Ma dimenticando che l’UK non solo resta ben salda nella Nato ma ne è la punta più forte e avanzata.
I paesi europei avrebbero più peso nei confronti dello strapotere americano isolati che uniti? Sembra una pia illusione. Tanto più se in aggiunta ai vincoli imposti da Nato e UE si aggiunge l’appartenenza al sistema economico-finanziario egemonizzato dagli Stati Uniti e ormai governato dal network delle banche centrali occidentali, in testa la Federal Reserve.
IL SISTEMA DOLLAROCENTRICO E IL TACITO RICATTO. A legare le mani ai paesi europei nei confronti di sanzioni che nuocciono loro direttamente non sono (sol)tanto i Trattati o i vincoli Nato quanto la supremazia economico-finanziaria degli USA prima potenza mondiale sia pure in declino, col dollaro moneta internazionale negli scambi commerciali, oltre che di riserva. Ad ammetterlo, come abbiamo visto, è lo stesso Council of Foreign Relations, organismo informale che dal dopoguerra ha sempre indirizzato la politica estera dell’impero.
“Gli US si autorizzano ad imporre le loro decisioni a tutto il mondo e a minacciare di fatto tutte le imprese e gli individui che hanno in un modo o nell’altro interessi negli USA. Un concetto di legalità quanto meno discutibile”. Ma essendo il dollaro moneta internazionale più utilizzata e l’economia americana al centro di quella mondiale il loro potere è immenso. Dal momento che si commercia in dollari si è legati e si dipende da quel paese”.
“Oggi è indispensabile rettificare il tiro sviluppando meccanismi e modelli ad hoc e orientando la globalizzazione in un senso più multipolare così da limitare il potere assoluto americano” arriva a proporre Francois Perrin, Direttore di Ricerca di quel think tank francese (19).
Obiettivo molto ambizioso, che a personaggi indubbiamente minori come Muhammar Gheddafi e Saddam Hussein ha portato malissimo. L’UE ha i mezzi per rispondere?
“L’UE è la seconda potenza economica del mondo, davanti alla Cina, dietro gli Usa, certo. E’un partner di primo piano per il US. Quando, dopo la legge Helms-Burton del 1996, gli europei hanno subito votato il “regolamento di blocco, gli americani non hanno poi dato seguito alle loro minacce. Il che prova che l’UE ha una forza economica e ha un peso politico quando lo desidera. Ma per opporsi e avere una strategia comune bisogna essere uniti e condividere la stessa diagnosi e la stessa volontà politica”.
“Europa, perla dell’Impero Americano” titola Dario Fabbri nell’ultimo Limes citato. Gli europei se ne rendono conto?
DISACCORDI CRESCONO IN SENO ALLA NATO. Dalla Turchia, Paese chiave dell’alleanza, che acquista i missili Russi S-400, al primo ministro italiano Conte che si è detto contrario alle sanzioni alla Russia imposte nel 2014 per i fatti dell’Ucraina, in quanto danneggiano l’economia italiana; argomenti ripresi anche dal primo ministro dell’Ungheria Orban, e da Belgio, Repubblica Ceca , Bulgaria, Grecia , sempre più critici nei confronti della strategia americana basata sulle sanzioni.
Lo segnalava un post di un esperto del Cato Institute, think tank liberista-libertario inizialmente vicino a Trump. (Il presidente si è dimostrato tepido verso l’UE ma anche verso la Nato che secondo i più estremi – es George Friedman su Limes – non servirebbe nemmeno più agli Usa che possono contare sui Five Eyes, i cinque paesi del mondo di lingua inglese uniti da vincoli speciali)
Gli alleati Nato sarebbero ancor meno entusiasti delle misure militari verso Mosca. Il vicepresidente americano Mike Pence lo ha toccato con mano quando Frau Merkel in febbraio ha rifiutato di spedire navi tedesche nello stretto di Kerch, tra mar Nero e mar d’Azov, nel braccio di ferro tra Mosca e Kiev.
Del resto Germania e Francia avevano resistito fermamente quando Bush a suo tempo aveva spinto per portare Georgia e Ucraina nella Nato. Più recentemente gli alleati si sono rifiutati di subentrare in Siria alle forze americane che Trump voleva ritirare o almeno ridurre a 200 uomini.
“Gli interessi americani ed europei si sovrappongono fino a un certo punto, su Russia e Iran hanno interessi incompatibili” scrive uno studioso del Cato Institute – think tank liberista-libertario, a suo tempo(1974) fondato da Charles Koch (il miliardario dell’energia già sostenitore di Trump). Sul suo sito molti articoli critici sulla Nato.
UNA NUOVA COMUNE POLITICA ESTERA e DI SICUREZZA. “La politica estera dell’UE non funziona. Questo è quel che pensano nove membri dell’Unione, a partire da Francia e Germania. Non lo dicono ad alta voce ma il messaggio è chiaro, da quel che si legge in un paper in circolazione, proprio per discuterne nelle conversazioni che i ministri degli Esteri avranno in giugno”. Così un recentissimo articolo del Financial Times che ha potuto vedere lo scarno ma significativo documento. I suoi autori, che comprendono anche Danimarca, Svezia e Finlandia, ritengono che l’UE deve ancora dare concretezza al suo potenziale ruolo di attore globale.
La sua unità è sempre più messa alla prova da dinamiche interne ed esterne all’UE, osservano, pur insistendo sull’unità e la forza dell’Europa sul palcoscenico globale. Le preoccupazioni sarebbero accresciute dalle “relazioni sempre più complesse” (eufemismo diplomatico dei paesi o del FT?) dell’UE con Cina Russia e Stati Uniti.
Tre le ansie principali della diplomazia europea: i muscoli finanziari del blocco europeo non si traducono in influenza nelle crisi globali – con l’eccezione dell’accordo del 2015 con l’Iran, oggi in crisi; la solidarietà europea è stata messa alla prova in varie aree, dalle sanzioni alla Russia alle ambizioni territoriali di Pechino nel mare a Sud della Cina; il servizio diplomatico europeo (leggi: Federica Mogherini) non ha legato come sperato col lavoro dei ministri europei.
Punto chiave nel cambiare la politica estera e di sicurezza UE è superare le votazioni all’unanimità, procedura prevista dal Trattato Europeo su richiesta degli Stati Uniti. Perfino Manfred Weber, candidato del Ppe alla presidente della prossima Commissione UE, nel recentissimo confronto tv fra gli Spitzenkandidatsha espressamente detto che all’unanimità va sostituita la maggioranza qualificata. Sarebbe un primo importante passo. Una condizione non sufficiente, ma sicuramente necessaria.
Un tema caldissimo, quello della politica estera UE, che incrocia quello della comune Difesa europea – reso ancora più urgente dalle richieste di Trump di aumentare i contributi dei paesi europei alla Nato, subito al 2% del Pil, percentuale raggiunta solo da cinque paesi su 29 (Italia all’1.1% nel 2017), in prospettiva al 4%.(20) E di far pagare agli Stati che le ospitano i costi delle forze americane ivi stanziate “per proteggerli”, secondo il Piano di Trump ‘Cost Plus 50’ ben analizzato sul Manifesto (21).
Un argomento che si sovrappone a quello dei rapporti interni alla Nato, del suo funzionamento o addirittura della sua radicale rimessa in discussione. Come chiede il Comitato No Guerra No Nato (ne fanno parte storici come Franco Cardini accanto a Gino Strada, padre Zanotelli, il generale Mini ecc ecc), che in occasione del 70° anniversario l’aprile scorso ha organizzato un convegno a Firenze, con partecipanti italiani e stranieri .
  1. https://www.telegraph.co.uk/business/2019/05/16/trump-becoming-dangerously-addicted-tariffs-permanent-trade/
  2. http://www.iris-france.org/136209-politique-de-sanctions-americaines-vers-une-nouvelle-guerre-commerciale/
  3. https://www.ibs.it/limes-rivista-italiana-di-geopolitica-libro-vari/e/9788883717505?lgw_code=1122-B9788883717505&gclid=Cj0KCQjwrJ7nBRD5ARIsAATMxssuy96OUFOIMpdGVGdsmH5ruTdkYzk5vrKU-pNWiACf9-Qs1i5KO0MaArT3EALw_wcB
  4. http://www.iris-france.org/136037-loi-helms-burton-contre-cuba-lextraterritorialite-du-droit-americain/
16. In particolare l’articolo 42 comma 2 prescrive esplicitamente che la politica di sicurezza e difesa dell’UE – che è parte integrante della politica estera comune, campo nel quale ogni decisione va presa all’unanimità – “non deve pregiudicare” la politica di certi Membri e “deve rispettare gli impegni” di certi Membri che vedono la loro difesa realizzata nella NATO, sotto il trattato Nord Atlantico ed “essere compatibile con la politica di sicurezza e difesa comuni stabiliti in quella cornice”.

18. https://www.globalresearch.ca/exiting-war-system-nato/5677546

“The North-Atlantic Council has established the NATO rules in which “there is no vote or majority decision”.Decisions are taken unanimously and by mutual agreement”, meaning in agreement with the United States of America…”

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