Il caso dell’Iran è solo l’ultimo salito alla ribalta della cronaca, con le nuove ulteriori sanzioni su ferro acciaio alluminio e rame varate dal presidente Trump. Poche ore prima il presidente della Repubblica Islamica Hassan Rouhani aveva annunciato che l’Iran ricomincerà ad arricchire l’uranio per fini militari se entro 60 giorni le diplomazie internazionali non interverranno per salvare l’accordo sul nucleare, o JCPOA-Joint Comprehensive Plan of Action, del 2015, dal quale gli Usa di Trump si sono ritirati giusto un anno fa. Un accordo raggiunto con i paesi del gruppo “5+1”, i cinque che hanno potere di veto nel Consiglio di sicurezza (Stati Uniti, Russia Cina, Francia e Regno Unito) più la Germania. E l’Unione Europea. Formalmente riconosciuto anche dall’ONU.
Commenti preoccupati, immediati sul Financial Times, poi a ruota su vari media e siti, l’escalation americana potrebbe portare a un incidente in grado di scatenare una guerra regionale, che nessuno in realtà vorrebbe a parte i falchi Usa come Mike Pompeo e soprattutto John Bolton, il consigliere per la Sicurezza.
Il problema va oltre l’Iran e riguarda le guerre economiche di Trump che – insieme ai dazi e alle tariffe con cui colpisce a destra e a manca in un crescendo tale da farlo definire “dangerously addicted”(1), pericolosamente dipendente, da un commentatore non nemico come Ambrose Evans Pritchard – utilizza l’arma delle sanzioni in un gran numero di paesi compresi Cuba, Venezuela e Siria, Sudan, Nord Corea, più naturalmente Russia, eccetera. Sanzioni la cui legittimità è discussa, sicuramente illegali quando hanno una portata extraterritoriale, quando cioè l’effetto di leggi americane viene esteso a paesi terzi. Primi gli alleati europei.
Del resto “La logica dell’amministrazione americana è proprio quella di utilizzare il diritto per difendere gli interessi economici degli Stati Uniti ed eliminare i concorrenti”, si osserva in vari post dell’IRIS, think tank francese molto impegnato su questo fronte (2). Utilizzare il diritto, forzarlo o scavalcarlo? Dipende.
L’Unione Europea scalpita e minaccia rappresaglie. Ma cosa può fare in concreto? Poco, come vedremo, stretta com’è tra la Nato, i Trattati e la supremazia del dollaro. Poco, soprattutto, se divisa al suo interno, con ogni paese preoccupato a difendere il suo orticello, e i paesi al confine est satelliti degli US. Il tema dei rapporti interni all’impero americano è attualissimo, Limes vi ha dedicato l’ultimo numero, vol4/2019 : Antieuropa, l’impero europeo dell’America(3)
Intanto diamo uno sguardo ai luoghi più caldi di questa guerra economica combattuta da Trump in nome dell’America First, dove “il Tesoro è ormai uno strumento di politica estera più potente del Pentagono, con tutte le sue portaerei e droni” (Patrick Cockburn, Counterpunch). Tesoro, il cui ‘comandante in capo’ en passant è Steven Mnuchin, ex Goldman Sachs.
CUBA. Dal 2 maggio scorso l’amministrazione americana può citare in giudizio le società straniere presenti a Cuba, applicando il titolo III di una legge del 1996 i cui effetti erano stati fino a oggi sospesi. La legge bipartisan Helms-Burton, di portata extraterritoriale promulgata sotto Bill Clinton consente infatti di perseguire imprese o persone che hanno investimenti, interessi legali o affari in corso di vario genere che si sospetta abbiano a che fare con beni nazionalizzati da Fidel Castro nel lontano 1959 (4)
In pratica le molte società canadesi ed europee –in primo luogo francesi e spagnole – impegnate a Cuba, saranno costrette ad andarsene per non essere sanzionate negli Usa. In ballo asset per un paio di miliardi di dollari, capitali di cui Cuba ha grande bisogno per ricostruirsi e rilanciarsi.
Francesi furibondi, Spagnoli a seguire. Trump “ha lanciato la più grande guerra economica contro l’Europa utilizzando Cuba come pretesto”, ha dichiarato un parlamentare transalpino.
La Francia ha già avuto occasione di assaggiare il carissimo prezzo delle ritorsioni americane nel 2014, quando BNP Paribas, una delle due maggiori banche francesi, fu multata per ben $9 miliardi per aver operato transazioni per conto di entità Cubane, Iraniane e Sudanesi nella lista nera degli US. La banca perse anche il diritto a cambiare valuta straniera in dollari per un intero anno. Lo racconta un post didascalico curato dal Council of Foreign Relationsvolto a dare qualche informazione nell’intricata materia sanzionatoria (5).
Come vedremo la dimensione extraterritoriale delle sanzioni americane va oltre il caso Cuba, che però resta un simbolo, nella strategia d Trump mirante ad annientare i residui paesi “socialisti” per riconquistare il predominio assoluto nell’America latina.
Nello stesso giorno in cui il Segretario di Stato Mike Pompeo annunciava la riattivazione del Titolo III venivano varate nuove misure restrittive nei confronti di Nicaragua e Venezuela, gli altri due componenti della “troika della tirannia. Prese di mira le banche centrali dei due paesi, oltre a interdizioni a varie personalità, e altro.
VENEZUELA. Forse memore del caso di BNP Paribas, Macron ha fatto recentemente marcia indietro sulle sanzioni al Venezuela. Nell’agosto 2018, aveva infatti annunciato che il successivo novembre non avrebbe aderito al prolungamento di un altro anno delle misure restrittive prese dall’UE nel 2017 su richiesta Usa. Un gesto di insubordinazione significativo, quello francese, molto apprezzato in quella parte del sud America che ancora resiste (6).
Se ne compiaceva un sito sudamericano citando BBC World: “I paesi hanno deciso le sanzioni al Venezuela per compiacere gli Usa”. La Francia in un primo tempo avrebbe tentato di proporsi come ‘facilitatore’ per stabilire un dialogo. Secondo ADN Radio dal Cile anche la Spagna si sarebbe detta contraria.
Era stato del resto lo stesso presidente Trump a chiedere all’UE di sanzionare il governo Maduro nel settembre 2017. In quanto parte di un piano su larga scala, ha spiegato il Segretario di Stato Mike Pompeo, ex direttore CIA, a una conferenza dell’American Enterprise Institute .
Le sanzioni comprendono un ampio ventaglio di divieti, il congelamento di beni di funzionari, a partire dal presidente, nonché la proibizione di fornire sostegno tecnico o finanziario al Venezuela. Secondo Maduro le misure adottate da US e UE impedirebbero al paese persino di approvvigionarsi di cibo e di medicine.
I boicottaggi sono arrivati al punto che Bank of England ha rifiutato di rimpatriare 14 tonnellate, valutate $570 milioni, delle riserve venezuelane che la banca centrale britannica detiene per un valore pari a $1.2 miliardi, su richiesta del presidente. Per evitare il riciclaggio, hanno spiegato dalla banca centrale inglese. Ma secondo il Timesil motivo vero era il timore di Maduro di nuove ulteriori misure. Solo negli ultimi giorni la tranche richiesta è stata sbloccata.
Fatto sta che Macron ha fatto marcia indietro. In cambio di qualcosa da parte di Trump probabilmente, magari in Libia. Ma a scapito della sua immagine di paese relativamente “indipendente”, secondo il sito latinoamericano.
IRAN. E’ ancora il Trump – chi altri sennò? – l’autore di nuove mosse aggressive che colpiscono anchel’Europa. Non solo ha aggiunto nuove sanzioni su ferro, acciaio, alluminio, rame ma ha anche cancellato le deroghe concesse ad otto paesi importatori di petrolio iraniano – tra i quali l’Italia e Grecia – che li esentavano temporaneamente dalle durissime sanzioni decise lo scorso novembre che avevano colpito società di navigazione ma soprattutto banche e petrolio. Deroghe dettate dal timore di destabilizzare il prezzo dell’oil, venuto meno dopo i recenti accordi con i Sauditi.
E’ l’ultimo atto – peraltro ormai ininfluente, di una aggressione che mira ad annientare ogni ripresa del paese ilquale, sotto sanzioni Usa dal 1979 , contava di risorgere dopo l’accordo del 2015. Quello dal quale Trump ha fatto carta straccia nel 2018, con grande soddisfazione di Israele, sodale dell’America di Trump, e dell’alleata Arabia Saudita. The Donald lo aveva promesso in campagna elettorale, attaccando a testa bassa Obama.
Da allora è stato un crescendo di ostilità: la Guardia Repubblicana di Teheran, un corpo di Stato, è stata dichiarata organizzazione terroristica e lo scorso 19 agosto, in occasione dell’anniversario del rovesciamento del primo ministro iraniano Mossadeq da parte della CIA, il segretario di Stato Pompeo, che della CIA è stato capo tra il 2017 e il 2018, ha dato vita all’ Action Group for Regime Change in Iran (7)
Nel frattempo imprese europee e multinazionali (Daimler, Total, British Airways, Air France, banche varie ecc) sospendevano le loro relazioni commerciali col paese sottostando silenziosamente alle sanzioni nel timore di ritorsioni sul mercato americano, e non si capiva più che fine avrebbe fatto l’accordo.
Fino all’annuncio di Rouhani che ha di colpo alzato il livello dello scontro. E ha passato la palla passa agli altri firmatari. Compresa la UE.
Da Bruxelles nell’anno trascorso dal ritiro di Trump i segnali sono stati misti (8). Dure le parole. La Commissione è arrivata a invocare lo” statuto di blocco” una misura europea del 1996, mai utilizzata, che proteggerebbe le società dell’Unione dalle sanzioni extraterritoriali americane (lo vedremo).
Nessuna azione concreta però è stata intrapresa, tra rimandi ed equivoci. L’alta rappresentante per la politica estera Federica Mogherini si è limitata a fare pressioni su Trump per assicurare esenzioni che consentissero ai paesi UE relazioni con l’Iran. Richieste ignorate da Washington. Né hanno ottenuto risultati gli umilianti viaggi alla Casa Bianca di Merkel e Macron, rimasti infatti su posizioni ambigue dopo il recente annuncio di Rouhani.
“Insieme confermiamo il nostro impegno all’JCPOA, un accordo importante per la nostra comune sicurezza” hanno dichiarato con la May qualche giorno fa. Chiedendo a tutte le parti in gioco di continuare a rispettare gli impegni sottoscritti. Ma guardandosi dal deprecare le mosse di Trump al di là di un vago ‘rincrescimento e preoccupazione’; e senza accennare alla ripresa di una normale attività diplomatica, economica, finanziaria e commerciale in Iran. Come se questa parte non fosse compresa negli accordi sottoscritti: come possono continuare ad essere validi se a rispettarli sono solo alcuni dei contraenti?
SANZIONI UE e USA. L’ESCALATON DI TRUMP. Le sanzioni non sono una novità. Ma fino al 1980 erano state adottate solo verso la Rodesia (1965), il Sud Africa dell’apartheid (1977), poi all’Iran (1979). In passato però si trattava per lo più di sanzioni dell’ONU, legittime, legali e globali in sé.
UE. Dagli anni 1990, con la fine della guerra fredda, le sanzioni sono diventate uno strumento di politica estera sempre più utilizzato (9). Da 6 sanzioni nel 1991 la UE è arrivata ad applicarne oggi circa 30, con varie motivazioni, persino a “sostegno della democrazia”.
Del resto la maggior parte sono adottate in tandem con gli USA, sebbene quelle europee siano solitamente più blande (verso la Siria e l’Ucraina per es colpiscono un numero minore di beni/organizzazioni, verso la Russia consentono di continuare i vecchi progetti, come in Nord Stream). Segno della scarsissima indipendenza dell’Unione in materia di politica estera, come vedremo .
USA. A d utilizzare l’arma delle sanzioni in modo sempre più massiccio dal crollo dell’URSS in poi sono gli Stati Uniti, che hanno via via trasformato questo strumento politico poco costoso e poco rischioso rispetto, a metà strada fra la diplomazia e la guerra economica. Non solo il numero delle sanzioni è infatti molto cresciuto ma è profondamente cambiata la loro ‘qualità’. Due le novità: le sanzioni finanziarie e quelle extraterritoriali. Spiega il post del Council of Foreign Relations citato sopra:
Immediatamente dopo l’11/9 – “di concerto con gli alleati – gli USA “hanno dato vita a una campagna concentrata sull’accesso al sistema finanziario globale – le banche internazionali. Il 23 settembre G.W. Bush con un ordine esecutivo assegna al Tesoro l’autorità di congelare beni e transazioni finanziarie di individui e altre entità sospettate di sostenere il terrorismo. Poco più tardi in base al Patriot Act lo stesso Bush Jr amplia i poteri del Tesoro che può indicare anche istituzioni o paesi come dediti al riciclaggio in base a semplici sospetti – non servono prove.
Nasce così l’OFAC- Office of Foreign Assets Control, dipartimento speciale del Tesoro che oggi amministra la maggior parte dei 26 programmi americani di sanzioni. Il Segretario di Stato può indicare un gruppo come ‘organizzazione terroristica’ o etichettare un paese come ‘sponsor del terrorismo’, e le misure scattano. L’OFAC di routine aggiorna la sua lista nera che conta oltre 6000 individui, società e gruppi i cui asset vengono bloccati e con le quali a persone e imprese americane, comprese le filiali straniere, è vietato fare transazioni.
Nel 2017 gli USA hanno deciso regimi di sanzioni onnicomprensive (verso paesi in quanto tali, anche questa è una relativa novità) nei confronti di Cuba, Iran, Sudan, Siria. Mentre il Congresso ha deciso e il presidente ha firmato – pur riluttante –precisa stranamente il CFR – sanzioni a Russia e Nord Corea e di nuovo all’Iran.
Una vera e propria escalation dell’amministrazione Trump, che sfrutta alla grande l’impostazione economica dell’arma sanzionatoria.
Una svolta che si era rivelata profonda. “Con questo approccio, che al contrario delle classiche misure del passato prende di mira il comportamento di istituzioni finanziarie, le decisioni politiche del governo non sono così persuasive quanto il calcolo basato sul rischio delle banche”, spiega nel suo libro l’alto funzionario dell’amministrazione Bush architetto di quel sistema (Juan Zarate, Treasury’s War, 2013).
“Gli esperti sostengono che queste misure hanno ridisegnato completamente l’ambiente normativo finanziario, alzando grandemente i rischi per le banche e altre istituzioni impegnate in attività sospette, anche senza volerlo. La centralità di New York e del dollaro per il sistema finanziario globale comporta che queste politiche Usa abbiano ripercussioni globali”. A sottolinearlo è lo stesso CFR.
Le penalità per violazioni possono essere gravi in termini di multe, perdita di affari, danni alla reputazione, aggiunge, ammettendo che “negli ultimi anni le autorità federali sono state particolarmente rigorose”. E a riprova inserisce nel post una tabella con tutte le banche penalizzate (francesi, tedesche, britanniche, svizzere, olandesi, lussemburghesi, giapponesi) e i milioni pagati dal 2010 al 2015. In testa BNP Paribas di cui sopra, la maggior multa -miliardaria – mai elargita.
Il caso di BNP e gli altri simili mettono in luce la seconda fondamentale novità: le sanzioni extraterritoriali, o secondarie, che non si limitano a vietare a cittadini e imprese del proprio paese che di fare affari con entità presenti in una lista nera, come nelle sanzioni tradizionali. Ma sono disegnate per limitare l’attività economica di governi, affaristi e cittadini di paesi terzi. “Così che molti governi le considerano una violazione della loro sovranità e del diritto internazionale”, osserva il CFR.
Vedi le sanzioni all’Iran e a Cuba, volte a isolare quei paesi e insieme a colpire gli Stati che commerciano con loro. “Gli Usa possono punire banche ovunque, perfino nei paesi dove l’Iran è forte come il Libano o l’Iraq” scrive Patrick Coburn(10). Convinto che in un’escalation del conflitto iraniano gli europei saranno spettatori.
Sanzioni e imposizione di dazi e tariffe si sovrappongono e si intrecciano nelle guerre economiche ingaggiate da Trump per rilanciare la centralità di un’America sempre meno influente in un mondo ormai multipolare. Esemplare il caso Huawei. Meng Wanzhou, figlia del fondatore e manager dell’azienda, è bloccata da sei mesi Canada, dove è stata arrestata per presunta violazione delle sanzioni (americane!) all’Iran.
REAZIONI E MINACCE UE. In questo scenario paesi UE appaiono sempre più insoddisfatti e riottosi. La riattivazione del Titolo III della legge del 1996 su Cuba ha suscitato numerose reazioni in ambito UE e segnatamente in Francia. I 28 secondo l’IRIS minaccerebbero rappresaglie.
L’Unione sarebbe intenzionata a usare tutti i mezzi a disposizione. Si vagheggiano misure apparentemente fantasiose come trasferimenti in denaro elettronico capaci di sfuggire al sistema finanziario ufficiale (blockchain?) o deleghe alle banche centrali nazionali della funzione di intermediazione nel trading.(11)
Più concreto il ricorso all’WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, dal momento che le sanzioni americane sarebbero illegali e contrarie al suo regolamento, rappresentando elementi di distorsione del commercio mondiale. Opinioni discordi. Secondo alcuni potrebbe portare a ripercussioni a catena, con pignoramenti in reciprocità di beni statunitensi nell’Unione, e addirittura aprire un varco a rivendicazioni da parte di società danneggiate dal blocco americano verso paesi terzi (12).
Altri (l’IRIS)obiettano che sarebbe probabilmente un’arma spuntata: gli americani potrebbero tranquillamente decidere di uscire da quell’istituzione ormai superata: dazi e tariffe minacciati e messi in atto dall’amministrazione Trump in modo sempre più aggressivo – c’è chi li considera alla pari di vere e proprie sanzioni – hanno ormai modificato il panorama di una globalizzazione governata da regole condivise.
Ritorsioni europee potrebbero arrivare al blocco di asset americani nel continente. Ma” si tratta di pura teoria”, convengono i ricercatori dell’IRIS. Le sanzioni americane hanno un effetto estremamente dissuasivo nella misura in cui nemmeno una impresa può infischiarsene di perdere il mercato americano. Tra un (piccolo) mercato cubano potenziale e l’immenso mercato Usa, la scelta è presto fatta. Se non cooperate è <no deal>. Il caso dell’Iran insegna.
A disposizione dell’UE vi sarebbe il cosiddetto “Statuto di blocco” nei confronti degli Usa previsto dal sistema sanzionatorio comunitario (13). Una normativa creata nel 1996 in parallelo alla legge americana Helms -Burton varata in occasione delle sanzioni a Cuba, che “spunterebbe ogni arma a Washington”, secondo l’IRIS. Una misura mai invocata finora, ma aggiornata proprio nel 2018. Per applicare questa come del resto le altre sanzioni- serve tuttavia una decisione del Consiglio europeo all’unanimità.
Lo prescrivono le regole del TFEU – trattato che applica il TEU, Trattato dell’Unione Europea che ha aggiornato quello di Maastricht – che prevedono una doppia procedura: un voto a maggioranza per la parte economica delle sanzioni, e uno unanime per quel che riguarda la politica estera. Come nei desiderata dell’alleato di Oltreatlantico.
I VINCOLI DELLA POLITICA ESTERA UE – Un articolo recente di Thierry Meyssan (14) su Voltairenet intitolato “L’Unione Europea costretta a prendere parte alle guerre Usa” – che ho linkato su Twitter suscitando reazioni perplesse o indignate – sosteneva che i membri dell’UE, compresi i paesi neutrali, non possono fare a meno di uniformarsi alle sanzioni decise da Pentagono e Tesoro In quanto Washington già 25 anni fa si è cautelata dalla possibilità che l’allora a nascente Unione europea potesse avere una politica estera e di difesa indipendente dalla Nato. Imponendo di fatto una ‘clausola ad hoc’ nel trattato di Maastricht. Tanto da far intendere che l’unica via per uscirne è liberarsi dai Trattati e del comando integrato Nato. E’ così?
Che la politica estera e di difesa dell’UE debba rispettare gli obblighi derivanti dall’adesione alla Nato è una realtà, così come è indubbio che tali vincoli sono sanciti nei Trattati costitutivi dell’Unione.
La “clausola” in questione si riferisce evidentemente al Titolo V, Cap 2 del Trattato dell’Unione Europea -TEU – che ha aggiornato quello Maastricht dopo Lisbona, dedicato alla Politica estera e di sicurezza (15).
In particolare l’articolo 42 comma 2 vincola esplicitamente tale politica comune al rispetto degli impegni con la Nato presi dai suoi membri, mentre l’art 24 prescrive fra l’altro votazioni del Consiglio all’unanimità in politica estera, comprese eventuali decisioni in tema di difesa comune. (16)
Anche il fatto che gli Stati Uniti in quei medesimi anni post crollo dell’URSS in cui definivano la loro geopolitica di superpotenza unica abbiano premuto sulla nascente Unione appare ben più che una supposizione.
“Dobbiamo prevenire l’emergere di accordi di sicurezza esclusivamente europei che possano minacciare la NATO”, si leggeva nel Defense Planning Guidance, il documento del Pentagono poi noto come “Dottrina Wolfowitz”, da Paul Wolfowitz, il neocon vice di Dick New York alla Difesa con George W:H.Bush (citazione dal New York Times marzo 1992, che Meyssan linka col Washington Post (17). Praticamente in contemporanea con il Trattato di Maastricht che gettava le basi nell’UE.
Era la definizione della strategia degli Usa superpotenza unica dopo il crollo dell’URSS, che tra l’altro già prevedeva l’intervento in Iraq. Gli US si impegnavano a difendere dalla Russia le nazioni europee dell’ex Patto di Varsavia. E chiedevano alla comunità europea di fare diventare membri dell’Unione i paesi dell’Est “il prima possibile”. Richiesta esaudita. Così come, contravvenendo alle assicurazioni date a Gorbaciov in occasione dell’unificazione della Germania, la Nato si è poi allargata a Est, dalle Repubbliche Baltiche alla Polonia, dove saranno presto installate otto batterie di missili Patriot puntati sulla Russia e stanno per arrivare gli F-35.
I paesi europei devono liberarsi dei Trattati e del comando integrato della Nato, dove non contano nulla (18), suggerisce Meyssan indicando l’esempio della Gran Bretagna che ha optato per la Brexit. Ma dimenticando che l’UK non solo resta ben salda nella Nato ma ne è la punta più forte e avanzata.
I paesi europei avrebbero più peso nei confronti dello strapotere americano isolati che uniti? Sembra una pia illusione. Tanto più se in aggiunta ai vincoli imposti da Nato e UE si aggiunge l’appartenenza al sistema economico-finanziario egemonizzato dagli Stati Uniti e ormai governato dal network delle banche centrali occidentali, in testa la Federal Reserve.
IL SISTEMA DOLLAROCENTRICO E IL TACITO RICATTO. A legare le mani ai paesi europei nei confronti di sanzioni che nuocciono loro direttamente non sono (sol)tanto i Trattati o i vincoli Nato quanto la supremazia economico-finanziaria degli USA prima potenza mondiale sia pure in declino, col dollaro moneta internazionale negli scambi commerciali, oltre che di riserva. Ad ammetterlo, come abbiamo visto, è lo stesso Council of Foreign Relations, organismo informale che dal dopoguerra ha sempre indirizzato la politica estera dell’impero.
“Gli US si autorizzano ad imporre le loro decisioni a tutto il mondo e a minacciare di fatto tutte le imprese e gli individui che hanno in un modo o nell’altro interessi negli USA. Un concetto di legalità quanto meno discutibile”. Ma essendo il dollaro moneta internazionale più utilizzata e l’economia americana al centro di quella mondiale il loro potere è immenso. Dal momento che si commercia in dollari si è legati e si dipende da quel paese”.
“Oggi è indispensabile rettificare il tiro sviluppando meccanismi e modelli ad hoc e orientando la globalizzazione in un senso più multipolare così da limitare il potere assoluto americano” arriva a proporre Francois Perrin, Direttore di Ricerca di quel think tank francese (19).
Obiettivo molto ambizioso, che a personaggi indubbiamente minori come Muhammar Gheddafi e Saddam Hussein ha portato malissimo. L’UE ha i mezzi per rispondere?
“L’UE è la seconda potenza economica del mondo, davanti alla Cina, dietro gli Usa, certo. E’un partner di primo piano per il US. Quando, dopo la legge Helms-Burton del 1996, gli europei hanno subito votato il “regolamento di blocco, gli americani non hanno poi dato seguito alle loro minacce. Il che prova che l’UE ha una forza economica e ha un peso politico quando lo desidera. Ma per opporsi e avere una strategia comune bisogna essere uniti e condividere la stessa diagnosi e la stessa volontà politica”.
“Europa, perla dell’Impero Americano” titola Dario Fabbri nell’ultimo Limes citato. Gli europei se ne rendono conto?
DISACCORDI CRESCONO IN SENO ALLA NATO. Dalla Turchia, Paese chiave dell’alleanza, che acquista i missili Russi S-400, al primo ministro italiano Conte che si è detto contrario alle sanzioni alla Russia imposte nel 2014 per i fatti dell’Ucraina, in quanto danneggiano l’economia italiana; argomenti ripresi anche dal primo ministro dell’Ungheria Orban, e da Belgio, Repubblica Ceca , Bulgaria, Grecia , sempre più critici nei confronti della strategia americana basata sulle sanzioni.
Lo segnalava un post di un esperto del Cato Institute, think tank liberista-libertario inizialmente vicino a Trump. (Il presidente si è dimostrato tepido verso l’UE ma anche verso la Nato che secondo i più estremi – es George Friedman su Limes – non servirebbe nemmeno più agli Usa che possono contare sui Five Eyes, i cinque paesi del mondo di lingua inglese uniti da vincoli speciali)
Gli alleati Nato sarebbero ancor meno entusiasti delle misure militari verso Mosca. Il vicepresidente americano Mike Pence lo ha toccato con mano quando Frau Merkel in febbraio ha rifiutato di spedire navi tedesche nello stretto di Kerch, tra mar Nero e mar d’Azov, nel braccio di ferro tra Mosca e Kiev.
Del resto Germania e Francia avevano resistito fermamente quando Bush a suo tempo aveva spinto per portare Georgia e Ucraina nella Nato. Più recentemente gli alleati si sono rifiutati di subentrare in Siria alle forze americane che Trump voleva ritirare o almeno ridurre a 200 uomini.
“Gli interessi americani ed europei si sovrappongono fino a un certo punto, su Russia e Iran hanno interessi incompatibili” scrive uno studioso del Cato Institute – think tank liberista-libertario, a suo tempo(1974) fondato da Charles Koch (il miliardario dell’energia già sostenitore di Trump). Sul suo sito molti articoli critici sulla Nato.
UNA NUOVA COMUNE POLITICA ESTERA e DI SICUREZZA. “La politica estera dell’UE non funziona. Questo è quel che pensano nove membri dell’Unione, a partire da Francia e Germania. Non lo dicono ad alta voce ma il messaggio è chiaro, da quel che si legge in un paper in circolazione, proprio per discuterne nelle conversazioni che i ministri degli Esteri avranno in giugno”. Così un recentissimo articolo del Financial Times che ha potuto vedere lo scarno ma significativo documento. I suoi autori, che comprendono anche Danimarca, Svezia e Finlandia, ritengono che l’UE deve ancora dare concretezza al suo potenziale ruolo di attore globale.
La sua unità è sempre più messa alla prova da dinamiche interne ed esterne all’UE, osservano, pur insistendo sull’unità e la forza dell’Europa sul palcoscenico globale. Le preoccupazioni sarebbero accresciute dalle “relazioni sempre più complesse” (eufemismo diplomatico dei paesi o del FT?) dell’UE con Cina Russia e Stati Uniti.
Tre le ansie principali della diplomazia europea: i muscoli finanziari del blocco europeo non si traducono in influenza nelle crisi globali – con l’eccezione dell’accordo del 2015 con l’Iran, oggi in crisi; la solidarietà europea è stata messa alla prova in varie aree, dalle sanzioni alla Russia alle ambizioni territoriali di Pechino nel mare a Sud della Cina; il servizio diplomatico europeo (leggi: Federica Mogherini) non ha legato come sperato col lavoro dei ministri europei.
Punto chiave nel cambiare la politica estera e di sicurezza UE è superare le votazioni all’unanimità, procedura prevista dal Trattato Europeo su richiesta degli Stati Uniti. Perfino Manfred Weber, candidato del Ppe alla presidente della prossima Commissione UE, nel recentissimo confronto tv fra gli Spitzenkandidatsha espressamente detto che all’unanimità va sostituita la maggioranza qualificata. Sarebbe un primo importante passo. Una condizione non sufficiente, ma sicuramente necessaria.
Un tema caldissimo, quello della politica estera UE, che incrocia quello della comune Difesa europea – reso ancora più urgente dalle richieste di Trump di aumentare i contributi dei paesi europei alla Nato, subito al 2% del Pil, percentuale raggiunta solo da cinque paesi su 29 (Italia all’1.1% nel 2017), in prospettiva al 4%.(20) E di far pagare agli Stati che le ospitano i costi delle forze americane ivi stanziate “per proteggerli”, secondo il Piano di Trump ‘Cost Plus 50’ ben analizzato sul Manifesto (21).
Un argomento che si sovrappone a quello dei rapporti interni alla Nato, del suo funzionamento o addirittura della sua radicale rimessa in discussione. Come chiede il Comitato No Guerra No Nato (ne fanno parte storici come Franco Cardini accanto a Gino Strada, padre Zanotelli, il generale Mini ecc ecc), che in occasione del 70° anniversario l’aprile scorso ha organizzato un convegno a Firenze, con partecipanti italiani e stranieri .
- https://www.telegraph.co.uk/business/2019/05/16/trump-becoming-dangerously-addicted-tariffs-permanent-trade/
- http://www.iris-france.org/136209-politique-de-sanctions-americaines-vers-une-nouvelle-guerre-commerciale/
- https://www.ibs.it/limes-rivista-italiana-di-geopolitica-libro-vari/e/9788883717505?lgw_code=1122-B9788883717505&gclid=Cj0KCQjwrJ7nBRD5ARIsAATMxssuy96OUFOIMpdGVGdsmH5ruTdkYzk5vrKU-pNWiACf9-Qs1i5KO0MaArT3EALw_wcB
- http://www.iris-france.org/136037-loi-helms-burton-contre-cuba-lextraterritorialite-du-droit-americain/
16. In particolare l’articolo 42 comma 2 prescrive esplicitamente che la politica di sicurezza e difesa dell’UE – che è parte integrante della politica estera comune, campo nel quale ogni decisione va presa all’unanimità – “non deve pregiudicare” la politica di certi Membri e “deve rispettare gli impegni” di certi Membri che vedono la loro difesa realizzata nella NATO, sotto il trattato Nord Atlantico ed “essere compatibile con la politica di sicurezza e difesa comuni stabiliti in quella cornice”.